Si possono distinguere due distinti periodi per quanto riguarda la calotta glaciale della groenlandia: il periodo di accumulo e quello di ablazione.
Nel tipico ciclo annuale della calotta glaciale della groenlandia si possono distinguere due fasi principali:
il periodo di accumulo e il periodo di ablazione.
Processi di accumulo
Durante il periodo di accumulo si ha un generale aumento dell’equivalente in acqua del manto, che subisce processi di metamorfismo diversi a seconda che sia costituito da neve umida o asciutta. Il periodo di accumulo è generalmente dominato da condizioni di neve asciutta ad alta quota e sui ghiacciai, e in questo caso i processi metamorfici dipendono dalla presenza o meno di un gradiente termico all’interno del manto (Male, 1980; Gray e Male, 1981). Durante il periodo di accumulo avviene la maggior parte dei processi di redistribuzione spaziale del manto nevoso, ad opera del vento e delle valanghe. Questi processi assumono maggiore rilevanza a mano a mano che aumenta la quota, a causa dell’accresciuta velocità media del vento e dell’assenza di vegetazione arborea. Per quanto riguarda il vento, si distinguono tre principali meccanismi di azione, rappresentati in figura 5: i) creep: spostamento in superficie delle particelle di neve troppo pesanti per essere sollevate dal vento, ii) saltazione: movimento delle particelle di neve in prossimità della superficie, fino a pochi centimetri da essa, iii) sospensione: movimento delle particelle di neve sospese in aria, fino a decine di metri dalla superficie (Pomeroy e Brun, 2001). L’azione del vento è in grado di asportare completamente il manto nevoso dai siti più esposti, (come creste, dossi e aree convesse in generale) e di creare importanti accumuli di neve nei siti di deposizione, dove la velocità del vento diminuisce (conche, avvallamenti, aree sottovento rispetto a bruschi cambi di pendenza). Spesso il vento agisce già durante gli eventi di precipitazione, impedendo la formazione del manto nevoso in alcune aree e creando sovraccumuli in altre; questo fenomeno, dovuto alla variabilità spaziale del campo di vento, è definito “deposizione preferenziale”. Le perdite per sublimazione indotte dalla redistribuzione eolica possono essere localmente significative e superare i 700 mm di equivalente in acqua in prossimità delle creste montuose più esposte (Strasser et al., 2008). In aree montuose caratterizzate da ripidi pendii, la valanghe mobilizzano importanti quantità di neve. Si possono distinguere due tipi principali di valanghe, raffigurati in figura 6: i) valanghe di neve a debole coesione: si innescano negli strati più superficiali del manto e si staccano da un singolo punto, allargandosi e trascinando sempre più neve durante la caduta fino a formare un percorso triangolare (sono le più frequenti); ii) valanghe di neve a lastroni: si innescano a causa di rotture interne al manto nevoso e interessano normalmente ampi settori di versante e strati di neve più spessi, mobilitando normalmente più neve rispetto alle valanghe a debole coesione. Le aree di distacco di queste valanghe presentano generalmente pendenze comprese tra 25 e 45°, mentre le aree in cui si arrestano hanno pendenze inferiori a 25°. Un terzo tipo di redistribuzione gravitativa, non ascrivibile a queste due categorie, riguarda gli scaricamenti che provengono dalle pareti e dai ripidi pendii rocciosi con pendenza superiore a 45-50°, troppo ripidi per poter trattenere significative quantità di neve durante gli eventi di precipitazione (McClung e Schaerer, 1993). Le valanghe sono normalmente innescate dalla presenza di strati deboli interni al manto nevoso o strati non ben collegati, come ad esempio brina di fondo, brina di superficie, croste da fusione e rigelo. Nel caso delle valanghe a debole coesione si osserva spesso un loro innesco in prossimità di rocce scoperte, che si surriscaldano con l’irraggiamento solare provocando una diminuzione locale della coesione della neve. Le valanghe possono inoltre essere innescate da un appesantimento del manto, conseguente ad un aumento di temperatura o anche in seguito a precipitazioni piovose.
L’acqua piovana o derivante dalla fusione può inoltre agire da lubrificante se raggiunge e scorre su una superficie parzialmente o interamente impermeabile (Schweizer et al., 2003). Nei bacini di alta quota, privi di copertura forestale, i processi di redistribuzione sono in grado di mobilitare consistenti volumi di neve, dando origine ad un pattern di distribuzione molto disomogeneo e complesso. Al termine della stagione di accumulo si osserva, di conseguenza, una scarsa o assente correlazione tra quota ed equivalente in acqua del manto nevoso, a differenza di quanto avviene al di sotto del limite del bosco dove è generalmente evidente l’effetto di incremento orografico sulle precipitazioni. Ad esempio, ghiacciai posti a breve distanza possono presentare valori di accumulo estremamente diversi (Machguth et al., 2006a), e anche all’interno dello stesso ghiacciaio si può osservare un’elevata variabilità spaziale dell’equivalente in acqua del manto nevoso (Plattner et al., 2004). Il pattern di distribuzione spaziale al termine della stagione di accumulo è generalmente molto simile di anno in anno, come risultato del persistente controllo esercitato dalla topografia e dalle condizioni climatiche (Erickson et al., 2005). Un ulteriore processo di accumulo è rappresentato dal ricongelamento interno dell’acqua di fusione. Tale ricongelamento avviene durante la stagione di ablazione. Nella prima parte della stagione l’acqua di fusione prodotta in superficie percola in profondità, dove tende a ricongelare trovando strati con temperature ancora negative. Al procedere della stagione di ablazione tutto lo spessore della neve diventa isotermico. Al termine della stagione di ablazione si ha il congelamento dell’acqua liquida trattenuta dal manto nevoso, che rappresenta una voce positiva del bilancio di massa, talora non trascurabile (Reijmer e Hock, 2008)
Processi di ablazione
Con il termine “ablazione” si fa riferimento a tutti i processi in grado di provocare perdite di massa a carico di neve e ghiaccio. Sono inclusi quindi: i) ablazione eolica, ii) valanghe di ghiaccio (dry calving), iii) distacco di icebergs in acqua (iceberg calving), iv) fusione seguita da deflusso, v) evaporazione e sublimazione. L’erosione eolica è già stata discussa a proposito dei processi di redistribuzione della neve. In alcune aree, come ad esempio lungo i margini delle calotte polari soggetti a forti venti catabatici, essa può rimuovere importanti quantità di neve. Il dry calving interessa i ghiacciai che terminano a monte di ripidi pendii, dalla cui fronte si staccano blocchi di ghiaccio. Può inoltre avvenire al margine di ghiacciai polari, che normalmente presentano una fronte ripida. L’iceberg calving avviene per distacco di blocchi di ghiaccio dalla fronte di ghiacciai che terminano in acqua. La fusione, l’evaporazione e la sublimazione sono i tre processi di passaggio dell’acqua dallo stato solido allo stato liquido, dallo stato liquido allo stato gassoso, e dallo stato solido allo stato gassoso, rispettivamente. Le perdite di massa attribuibili a questi tre processi possono avvenire sia in
superficie, sia all’interno delle cavità al di sotto di essa (in questo caso si parla di “ablazione interna”,Ambach, 1955). La fusione è il processo di ablazione dominante su gran parte dei ghiacciai, dove la temperature supera il punto di fusione per almeno una parte dell’anno. La sublimazione domina invece su ghiacciai collocati su aree fredde continentali, come le Dry Valleys antartiche, dove l’aria è molto secca. Fusione, evaporazione e sublimazione richiedono input di energia, che possono provenire da fonti diverse. L’ablazione attraverso questi tre processi avviene quando il bilancio energetico in superficie diventa positivo e dopo che il ghiaccio è stato portato alla temperatura di fusione (Dingman, 1994). L’acqua di fusione che percola tende a ricongelare se le temperature all’interno del manto nevoso sono sotto il punto di congelamento. Questo processo comporta il rilascio di calore latente (334 Jg1 ). Nel caso continui la fusione in superficie, gli strati interessati da percolazione vengono gradualmente portati a condizioni di isotermia a 0°C. Parte dell’acqua di fusione prodotta è trattenuta dal manto nevoso stesso, normalmente tra il 3-5% del peso anche se alcuni studi hanno evidenziato valori massimi di ritenzione pari al 25% del peso (Gray e Male, 1981; De Quervain, 1948). Input aggiuntivi di energia oltre tale condizione comportano la percolazione di acqua di fusione sul terreno. Quando l’intensità della fusione raggiunge il suo massimo, il 20% o più del peso del manto è costituito da acqua, gran parte della quale è in transito sotto l’effetto della forza di gravità. Ad alta quota e sui ghiacciai delle medie latitudini il flusso energetico disponibile per la fusione è dominato dalla radiazione ad onda corta (radiazione solare). Poiché la radiazione ad onda corta gioca un ruolo dominante nel bilancio energetico, la copertura nuvolosa e l’albedo della superficie sono cruciali nel determinare la quantità di energia che è assorbita e che si rende disponibile per la fusione. L’albedo varia in funzione della dimensione dei grani, della loro forma, della densità, del contenuto in acqua liquida della neve, della copertura nuvolosa, dell’angolo di incidenza dei raggi solari, della rugosità e della concentrazione di impurità alla superficie. Assume valori massimi attorno a 0.9 in caso di neve fresca asciutta, 0.6 per neve umida a grani piccoli, 0.45 per neve umida a grani grossi, fino a raggiungere valori attorno a 0.3 in caso di neve satura d’acqua e ricca di impurità in superficie. Su ghiaccio di ghiacciaio assume valori attorno a 0.35, anche se può scendere sotto lo 0.1 in caso di ghiaccio molto sporco e ricoperto da limo. L’albedo del firn è inferiore a quello della neve stagionale e varia a seconda dell’età, a causa del progressivo accumularsi di impurità sulla superficie e dell’accrescimento dei diametro dei cristalli (Gray e Male, 1981; Oerlemans 2000, 2001). A differenza di quanto avviene per la radiazione solare, la quantità di radiazione ad onda lunga riflessa dalla neve e dal ghiaccio è trascurabile e praticamente tutta viene assorbita. Normalmente però il flusso ad onda lunga rappresenta una perdita di energia dal ghiacciaio poiché la quantità emessa è superiore rispetto a quella assorbita. La radiazione termica in arrivo è quella emessa da ozono, anidride carbonica e soprattutto dal vapore acqueo (81% del totale): il flusso di radiazione a onda lunga in entrata varia quindi in funzione soprattutto della quantità e temperatura del vapore acqueo atmosferico, mentre il flusso in uscita è relativamente costante in condizioni di fusione. Normalmente negativo dunque, il bilancio della radiazione termica sul ghiacciaio diventa positivo in condizioni di avvezione di aria caldo-umida, con cielo coperto, alta umidità relativa ed elevate temperature. 30 Gli scambi turbolenti di calore sensibile e calore latente possono essere rilevanti, soprattutto in inverno o in estate in condizioni di alta temperatura e ampia variabilità spaziale della velocità del vento. Il flusso di energia è determinato dai rispettivi gradienti di temperatura e umidità. Questi scambi energetici sono di secondaria importanza se confrontati con i termini radiativi, ma giocano spesso un ruolo rilevante nel determinare l’intensità della fusione. L’importanza dei termini dipendenti dalla temperatura dell’aria, rispetto ai termini radiativi del bilancio energetico, è inversamente proporzionale alla quota. La temperatura dell’aria sulle superfici glaciali presenta un comportamento particolare, non assimilabile a quanto avviene nella libera atmosfera. Poiché le superfici di ghiaccio e neve non possono superare gli 0°C, esercitano un effetto raffreddante sulla massa d’aria soprastante nel caso in cui essa sia a temperature positive. L’aria così raffreddata, più densa, si muove verso valle lungo la direzione della massima pendenza e origina il cosiddetto “vento di ghiacciaio”. L’effetto raffreddante aumenta lungo il percorso della massa d’aria verso il basso, e il risultato finale è duplice: i) la temperatura dell’aria sopra i ghiacciai è più bassa rispetto a quella della libera atmosfera a parità di quota, ii) il gradiente termico verticale è fortemente ridotto rispetto alla libera atmosfera (Greuell e Smeets, 2001). Il flusso energetico proveniente dal terreno è una componente trascurabile nel bilancio energetico, se confrontato con le componenti radiative e turbolente. La fusione prodotta da questo flusso è irrilevante su brevi periodi di tempo, ma può essere significativa a livello stagionale, specie se si è in presenza di manti nevosi con temperatura prossima a 0°C. Il flusso di energia dal terreno può essere sensibilmente alterato dalla presenza di permafrost, terreno congelato o ghiaccio di ghiacciaio alla base del manto nevoso (Woo et al., 1982; Oerlemans, 2001; Hock, 2005). I flussi energetici apportati dalle precipitazioni piovose sono di ridotta portata e dipendono dalla temperatura della precipitazione stessa; generalmente si tratta di energia fornita alla superficie del ghiacciaio, che si trova a zero gradi, per raffreddamento di pioggia a temperatura superiore. L’entità della variazione di energia all’interno di manti nevosi spessi e dei ghiacciai è generalmente trascurabile rispetto agli scambi energetici tra superficie e atmosfera, eccezion fatta per il flusso di calore latente derivante dalla percolazione di acqua di fusione, in grado di elevare la temperatura interna del manto nevoso in modo sensibile all’inizio della stagione di ablazione. Quando in superficie c’è ghiaccio, l’unico processo è la conduzione molecolare; in presenza di neve o firn, invece, si ha anche convezione per moto di aria intergranulare che trasporta calore e vapor d’acqua. I flussi energetici sono molto ridotti, ma influiscono sul metamorfismo dei cristalli di neve.
Secondo il centro meteorologico danese DMI, non esiste una definizione convenzionale per quanto riguarda l’inizio della stagione di fusione o della stagione di ablazione (quando la perdita di ghiaccio per fusione supera costantemente il guadagno di ghiaccio dalle nevicate)per cui sono state sviluppate opportune definizioni delle soglie:
Inizio della stagione di fusione: il primo giorno di un periodo di almeno tre giorni consecutivi in cui più del 5% dello strato di ghiaccio è soggetto a fusione. Si identifica un processo di fusione, quando in un qualsiasi luogo della groenlandia, il tasso di fusione è maggiore di 1 mm/giorno.
Inizio della stagione di ablazione: Il primo giorno di un periodo di almeno tre giorni consecutivi in cui il bilancio di massa superficiale (SMB) è negativo e inferiore a -1 Gt/giorno (1 Gt è un miliardo di tonnellate e corrisponde a 1 chilometro cubo di acqua).