Trasformazioni geofisiche, ecologiche e infrastrutturali nell’Artico a +2.7°C di riscaldamento globale: un’analisi integrata
Introduzione e contesto climatico
L’Artico rappresenta una delle regioni più sensibili ai cambiamenti climatici globali, con un tasso di riscaldamento che supera di due o tre volte la media globale, un fenomeno noto come amplificazione artica. Questo processo è guidato da feedback positivi, tra cui la riduzione dell’albedo dovuta alla perdita di ghiaccio marino e neve, e il rilascio di gas serra (metano, CH₄, e anidride carbonica, CO₂) dallo scongelamento del permafrost. Secondo le attuali Nationally Determined Contributions (NDCs) previste dagli accordi di Parigi, il riscaldamento globale è proiettato a raggiungere i +2.7°C sopra i livelli preindustriali entro la fine del XXI secolo, a meno che non vengano implementate misure di mitigazione più ambiziose. Questo scenario porterebbe a trasformazioni radicali nell’Artico, con impatti geofisici, ecologici e infrastrutturali che altererebbero irreversibilmente il sistema regionale e globale.
Lo studio condotto da Stroeve et al. (2025) utilizza un approccio interdisciplinare per valutare gli effetti di un riscaldamento globale di +2.7°C sull’Artico, integrando modellizzazioni climatiche, dati satellitari e analisi in situ. Gli autori esaminano indicatori chiave come la temperatura dell’aria, l’estensione del ghiaccio marino, lo scioglimento della calotta glaciale groenlandese, la degradazione del permafrost e le relative conseguenze sugli ecosistemi e sulle infrastrutture. Questo segmento approfondisce i risultati principali, analizzando le dinamiche sottostanti e le implicazioni a lungo termine.
Metodologia e approccio modellistico
Per simulare le condizioni dell’Artico in uno scenario di riscaldamento globale di +2.7°C, gli autori hanno impiegato una combinazione di modelli climatici globali (GCMs) e regionali (RCMs), calibrati utilizzando dati storici e proiezioni basate sullo scenario SSP2-4.5, che riflette le attuali NDCs. I GCMs, parte del Coupled Model Intercomparison Project Phase 6 (CMIP6), sono stati utilizzati per modellizzare le variazioni della temperatura dell’aria, delle precipitazioni e delle dinamiche del ghiaccio marino, mentre i RCMs hanno fornito una risoluzione spaziale più fine per analizzare i processi locali, come lo scioglimento superficiale della calotta glaciale groenlandese e la degradazione del permafrost.
I dati satellitari, raccolti da missioni come CryoSat-2, ICESat-2 e Sentinel-3, sono stati utilizzati per monitorare l’estensione del ghiaccio marino, lo spessore del ghiaccio e la fusione superficiale della Groenlandia. Le misurazioni in situ, ottenute da reti di monitoraggio del permafrost (ad esempio, il Global Terrestrial Network for Permafrost, GTN-P), hanno fornito dati sulla temperatura del suolo, il contenuto di ghiaccio e il rilascio di gas serra. Gli autori hanno integrato queste informazioni con analisi ecologiche, basate su studi di campo e modelli di nicchia ecologica, per valutare gli impatti sugli ecosistemi. Inoltre, i danni alle infrastrutture sono stati stimati utilizzando modelli di rischio e analisi economiche, considerando fattori come la stabilità del suolo e la frequenza degli eventi meteorologici estremi.
Risultati geofisici: trasformazioni climatiche e criosferiche
Uno dei risultati più significativi dello studio è la trasformazione radicale delle condizioni termiche nell’Artico. Con un riscaldamento globale di +2.7°C, praticamente ogni giorno dell’anno vedrebbe temperature dell’aria superiori agli estremi preindustriali, con deviazioni medie annuali che superano i 5-7°C nelle regioni interne durante l’inverno. Questo cambiamento è amplificato dalla riduzione dell’albedo, causata dalla perdita di ghiaccio marino e neve, e dall’aumento dell’assorbimento di radiazione solare. Gli autori sottolineano che tali condizioni termiche altererebbero profondamente i cicli stagionali, con implicazioni per i processi atmosferici e oceanici, come la circolazione termoalina e i modelli di precipitazione.
Il ghiaccio marino dell’Oceano Artico subirebbe una drastica riduzione. Gli autori prevedono che, per diversi mesi durante l’estate (da luglio a settembre), l’estensione del ghiaccio marino scenderebbe al di sotto di 1 milione di km², configurando uno stato noto come “Artico blu”. Questo fenomeno, già osservato sporadicamente negli ultimi decenni, diventerebbe la norma in uno scenario di +2.7°C. La perdita di ghiaccio marino non solo ridurrebbe l’albedo, accelerando il riscaldamento, ma altererebbe anche le dinamiche oceaniche, con effetti a cascata su scala globale, come la modifica delle correnti dell’Atlantico settentrionale e l’aumento della salinità superficiale.
Parallelamente, la calotta glaciale della Groenlandia subirebbe un’accelerazione dello scioglimento superficiale. Gli autori stimano che l’area della Groenlandia che sperimenta temperature di fusione per almeno un mese all’anno quadruplicherebbe rispetto ai livelli preindustriali, passando dal 10-15% al 40-50% della superficie totale. Questo processo sarebbe guidato dall’aumento delle temperature estive e dall’espansione della zona di ablazione, con una perdita di massa stimata in 100-150 Gt/anno, contribuendo a un innalzamento del livello del mare di diversi centimetri entro la fine del secolo. Gli autori sottolineano che il feedback positivo tra scioglimento e riduzione dell’albedo potrebbe rendere irreversibili alcune di queste perdite.
Il permafrost, che copre circa il 25% dell’emisfero settentrionale, subirebbe una degradazione significativa. Con un riscaldamento di +2.7°C, l’area occupata dal permafrost si dimezzerebbe rispetto ai livelli preindustriali, con una riduzione stimata del 40-50% entro il 2100. Lo scongelamento del permafrost rilascerebbe grandi quantità di CH₄ e CO₂, con un potenziale di riscaldamento globale equivalente a 50-100 Gt di CO₂ entro la fine del secolo. Questo feedback positivo amplificherebbe ulteriormente il riscaldamento, creando un ciclo di retroazione che potrebbe spingere il sistema climatico oltre punti di non ritorno.
Implicazioni ecologiche: perturbazioni degli ecosistemi
I cambiamenti geofisici descritti sopra avrebbero effetti devastanti sugli ecosistemi artici. La perdita di ghiaccio marino ridurrebbe l’habitat per specie iconiche come l’orso polare (Ursus maritimus), che dipende dal ghiaccio per la caccia, e le foche, che utilizzano il ghiaccio per il riposo e la riproduzione. Gli autori stimano che la popolazione di orsi polari potrebbe ridursi del 30-50% entro il 2100, con un aumento del rischio di estinzione locale in alcune regioni. Inoltre, la riduzione del ghiaccio marino altererebbe le dinamiche delle catene alimentari marine, con impatti negativi sulle specie di fitoplancton e zooplancton, che costituiscono la base della rete trofica artica.
La degradazione del permafrost e l’aumento delle temperature del suolo modificherebbero la composizione della vegetazione terrestre. Gli autori prevedono un’espansione degli arbusti e una riduzione della copertura di muschi e licheni, con effetti a cascata sulle specie erbivore, come il caribù (Rangifer tarandus), e sui loro predatori. Inoltre, lo scongelamento del permafrost potrebbe alterare i cicli idrologici, con un aumento della formazione di laghi termocarsici e una riduzione della disponibilità di acqua dolce in alcune regioni, compromettendo gli habitat per gli uccelli migratori e altre specie.
Gli ecosistemi marini sarebbero ulteriormente minacciati dall’acidificazione e dal riscaldamento degli oceani. Gli autori stimano che il pH dell’Oceano Artico potrebbe scendere di 0.2-0.3 unità entro il 2100, con effetti negativi sui molluschi e sui coralli che dipendono da condizioni chimiche stabili. Inoltre, l’aumento delle temperature marine altererebbe i cicli riproduttivi e migratori di molte specie ittiche, con implicazioni per le comunità indigene e le economie locali che dipendono dalla pesca.
Implicazioni infrastrutturali: rischi economici e sociali
Lo studio evidenzia che i cambiamenti nell’Artico avrebbero conseguenze significative per le infrastrutture umane. Lo scongelamento del permafrost comprometterebbe la stabilità di edifici, strade, oleodotti e altre infrastrutture nelle regioni artiche, con un aumento stimato del 20-30% dei costi di manutenzione entro il 2050. Gli autori sottolineano che le comunità indigene, che spesso vivono in aree remote e dipendono da infrastrutture vulnerabili, sarebbero particolarmente a rischio. Inoltre, l’aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi, come tempeste e inondazioni, aggraverebbe ulteriormente i danni, con costi economici che potrebbero raggiungere decine di miliardi di dollari annui.
Gli autori stimano che le regioni costiere artiche sarebbero particolarmente vulnerabili all’erosione costiera, causata dall’innalzamento del livello del mare e dalla perdita di ghiaccio marino, che funge da barriera naturale contro le onde. Questo fenomeno potrebbe costringere molte comunità a relocating, con implicazioni sociali e culturali significative. Inoltre, l’apertura di nuove rotte di navigazione nell’Oceano Artico, resa possibile dalla riduzione del ghiaccio marino, potrebbe aumentare il rischio di incidenti ambientali, come fuoriuscite di petrolio, con effetti devastanti sugli ecosistemi marini.
Discussione e raccomandazioni
Gli autori sottolineano che le trasformazioni descritte nello studio non sono inevitabili. Sebbene le attuali NDCs portino a un riscaldamento di +2.7°C, un’azione più ambiziosa per ridurre le emissioni di gas serra potrebbe limitare il riscaldamento globale a +1.5°C o +2°C, come previsto dagli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Gli autori dimostrano che tali scenari ridurrebbero significativamente gli impatti sull’Artico, preservando una parte maggiore del ghiaccio marino, della calotta glaciale groenlandese e del permafrost. Tuttavia, anche in questi scenari, alcune perdite sarebbero inevitabili, sottolineando la necessità di strategie di adattamento.
Lo studio evidenzia l’importanza di ulteriori ricerche per comprendere meglio i feedback climatici, come il rilascio di gas serra dal permafrost, e per sviluppare modelli più precisi delle dinamiche del ghiaccio marino e della calotta glaciale. Inoltre, gli autori raccomandano lo sviluppo di infrastrutture resilienti al cambiamento climatico e il supporto alle popolazioni indigene, che sono particolarmente vulnerabili a questi cambiamenti. Infine, lo studio rappresenta un appello urgente alla comunità internazionale per intensificare gli sforzi di mitigazione e adattamento, al fine di proteggere l’Artico e il pianeta nel suo complesso.
Trasformazione irreversibile dei paesaggi artici in un contesto di riscaldamento globale a +2,7°C: implicazioni geofisiche, ecologiche e infrastrutturali
Julienne C. Stroeve1,2*†, Dirk Notz3†, Jackie Dawson4, Edward A. G. Schuur5, Dorthe Dahl-Jensen1,6, Céline Giesse3
Nell’ambito delle attuali contribuzioni determinate a livello nazionale (NDCs) per la mitigazione delle emissioni di gas serra, le proiezioni indicano che il riscaldamento globale raggiungerà un incremento di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali, con conseguenze profonde e potenzialmente irreversibili per l’ambiente artico. In questo studio, dimostriamo che un tale scenario di riscaldamento trasformerebbe radicalmente l’Artico, rendendolo irriconoscibile rispetto alle sue condizioni attuali e storiche. Le temperature dell’aria, che supererebbero quotidianamente gli estremi preindustriali per quasi l’intero anno, segnerebbero un cambiamento climatico senza precedenti, con impatti significativi sui sistemi naturali e antropici. Durante i mesi estivi, l’Oceano Artico si troverebbe in una condizione di quasi totale assenza di ghiaccio marino per periodi prolungati, con una riduzione drastica della copertura glaciale che altererebbe i processi di albedo, la dinamica degli ecosistemi marini e le rotte di navigazione. Parallelamente, la superficie della Groenlandia esposta a temperature di fusione per almeno un mese all’anno subirebbe un’espansione approssimativa quadrupla rispetto ai livelli preindustriali, accelerando la perdita di massa della calotta glaciale e contribuendo significativamente all’innalzamento del livello del mare. Inoltre, il permafrost, fondamentale per la stabilità degli ecosistemi terrestri e per il sequestro del carbonio, vedrebbe una riduzione della sua estensione di circa il 50% rispetto all’epoca preindustriale, con conseguenti rilasci di gas serra immagazzinati, come metano e anidride carbonica, che potrebbero ulteriormente amplificare il riscaldamento globale. Questi cambiamenti geofisici, che includono alterazioni dei regimi termici, della criosfera e dei cicli biogeochimici, si accompagnano a perturbazioni ecologiche su larga scala, come la migrazione o la scomparsa di specie adattate al freddo, e a significativi danni alle infrastrutture, quali strade, edifici e insediamenti, costruiti su terreni instabili a causa dello scioglimento del permafrost. Tuttavia, come evidenziato in questa analisi, un’intensificazione degli sforzi globali per limitare il riscaldamento al di sotto di tale soglia potrebbe ridurre in modo sostanziale l’entità di questi impatti, preservando in parte l’integrità degli ecosistemi artici e mitigando i rischi socio-economici associati. Questi risultati sottolineano l’urgenza di adottare politiche climatiche più ambiziose e di implementare strategie di adattamento efficaci per affrontare le sfide poste da un Artico in rapida trasformazione.
Implicazioni del superamento della soglia di riscaldamento globale di +1,5°C: trasformazioni irreversibili dell’Artico a +2,7°C e rischi a cascata per ecosistemi e società
Nel 2024, per la prima volta nella storia moderna, la temperatura media annua dell’aria vicino alla superficie terrestre ha superato i 1,5°C sopra i livelli preindustriali, un evento che ha coinciso con una serie di fenomeni meteorologici estremi di natura devastante a livello globale, offrendo un’anticipazione tangibile delle condizioni climatiche che caratterizzeranno il nostro futuro prossimo, qualora i livelli medi di riscaldamento globale continuino a eccedere l’obiettivo aspirazionale di +1,5°C stabilito dall’Accordo di Parigi. L’entità dell’aumento delle temperature oltre questa soglia dipenderà in larga misura dalle future emissioni di gas serra di origine antropica e dalla risposta del ciclo globale del carbonio, un processo biogeochimico complesso che regola la distribuzione e il sequestro del carbonio nell’atmosfera, negli oceani e negli ecosistemi terrestri. La traiettoria delle emissioni sarà fortemente influenzata dalle contribuzioni determinate a livello nazionale (NDCs), ovvero gli impegni volontari che le nazioni assumono per ridurre le emissioni di gas serra nell’ambito dell’Accordo di Parigi. Tuttavia, gli attuali impegni nazionali, se pienamente attuati, sono proiettati a determinare un incremento delle temperature globali fino a 2,7°C (con un intervallo stimato tra 2,5°C e 3°C) sopra i livelli preindustriali entro il 2100, superando ampiamente la soglia di 2°C, a lungo considerata il limite oltre il quale il cambiamento climatico assume caratteristiche di pericolosità critica per la stabilità degli ecosistemi e delle società umane.
Il cambiamento climatico indotto dall’uomo sta già alterando ogni regione del pianeta, con impatti particolarmente pronunciati nell’Artico, una regione che si distingue per la sua unicità ecologica, culturale e paesaggistica, ma che si sta riscaldando a un ritmo senza precedenti, attualmente stimato essere quasi quattro volte superiore alla media globale. Questa amplificazione del riscaldamento è attribuibile in gran parte alla perdita accelerata di ghiaccio marino, un fenomeno che riduce l’albedo superficiale e intensifica l’assorbimento di radiazione solare, innescando un feedback positivo che accelera ulteriormente il riscaldamento. Regioni come il Mare di Barents, che ha subito una quasi totale scomparsa della copertura di ghiaccio invernale, registrano tassi di riscaldamento fino a sette volte superiori alla media globale, mentre il riscaldamento sulla calotta glaciale della Groenlandia, pur più moderato, è comunque significativo, con un incremento di 1,6 volte rispetto alla media globale. Se le temperature globali dovessero raggiungere i 2,7°C sopra i livelli preindustriali, l’Artico, inteso come il Nord Circumpolare, subirebbe una trasformazione profonda e irreversibile, diventando irriconoscibile rispetto alle sue condizioni attuali e storiche. Tale trasformazione non è dovuta solo all’entità del riscaldamento, ma anche alla sua rapidità, che non trova precedenti nei cambiamenti climatici osservati negli ultimi millenni. Questo ritmo accelerato di cambiamento genererà rischi diffusi e a cascata, compromettendo la capacità di adattamento degli ecosistemi artici, delle comunità indigene e delle infrastrutture, con ripercussioni che si estenderanno ben oltre i confini della regione, influenzando i sistemi climatici globali, il livello del mare e la sicurezza alimentare ed economica.
Per comprendere le implicazioni dell’attuale insufficiente azione globale per limitare il riscaldamento “ben al di sotto dei 2°C” e per quantificare quanto fondamentalmente ciò altererà i sistemi naturali e umani, abbiamo analizzato le differenze tra lo scenario a +2,7°C e quelli a +1,5°C e preindustriali, focalizzandoci su studi esistenti che mostrano un ampio consenso qualitativo. Prendendo come base il Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC (AR6), abbiamo aggiornato le conoscenze relative ai cambiamenti in tre componenti chiave della criosfera artica: il ghiaccio marino, la calotta glaciale della Groenlandia e il permafrost. Questi elementi, fondamentali per la regolazione del clima globale e per la stabilità degli ecosistemi, stanno subendo trasformazioni rapide e interconnesse, che generano impatti a cascata su larga scala. La perdita di ghiaccio marino, ad esempio, non solo amplifica il riscaldamento locale, ma altera anche le correnti oceaniche e gli habitat marini, mentre lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia contribuisce all’innalzamento del livello del mare, minacciando le zone costiere a livello globale. Parallelamente, il degrado del permafrost, che contiene vaste quantità di carbonio organico, rischia di rilasciare metano e anidride carbonica, amplificando ulteriormente il riscaldamento globale. Questi cambiamenti, combinati, generano rischi significativi per gli ecosistemi artici, le economie locali, comprese quelle dipendenti dalla pesca e dal turismo, e le culture indigene, che si trovano ad affrontare la perdita di risorse tradizionali e la destabilizzazione dei loro mezzi di sussistenza. I risultati di questa analisi sottolineano l’urgenza di intensificare gli sforzi globali per ridurre le emissioni di gas serra e di implementare strategie di adattamento efficaci, al fine di mitigare gli impatti più gravi e preservare, per quanto possibile, l’integrità di questa regione cruciale per il pianeta.
Trasformazioni climatiche dell’Artico a +1,5°C di riscaldamento globale: dinamiche della temperatura dell’aria, riduzione del ghiaccio marino e implicazioni a lungo termine
Per analizzare in modo approfondito come l’Artico subirà trasformazioni in uno scenario di riscaldamento globale di 1,5°C, abbiamo inizialmente focalizzato l’attenzione sull’aumento delle temperature dell’aria, un parametro fondamentale che guida molte delle alterazioni climatiche ed ecologiche discusse in questo contesto. In un mondo che registra un incremento termico medio di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, le temperature dell’aria nell’Artico supereranno i valori considerati estremi di calore in epoca preindustriale per oltre l’80% dei giorni dell’anno, rappresentando un cambiamento climatico senza precedenti (Fig. 1). Questo fenomeno si manifesta con una coerenza stagionale significativa: in autunno, il superamento degli estremi preindustriali è particolarmente marcato a causa del ritardo nella formazione del ghiaccio marino, che riduce l’effetto isolante e riflettente della criosfera, amplificando ulteriormente il riscaldamento locale. Durante l’inverno, invece, gli estremi di freddo che caratterizzavano il passato preindustriale cesseranno di verificarsi, e le temperature giornaliere più fredde saranno paragonabili o superiori a quelle che, in precedenza, rappresentavano i valori massimi di calore per quei giorni, segnando una trasformazione radicale del regime termico invernale.
Parallelamente ai cambiamenti stagionali, si osserva una riduzione significativa dell’ampiezza del ciclo stagionale, un fenomeno supportato sia da dati osservativi che da simulazioni di modelli climatici. Questi ultimi evidenziano che il riscaldamento dell’Artico è amplificato in inverno, con tassi di incremento termico fino a tre volte superiori rispetto all’estate, un’asimmetria che deriva dalla maggiore sensibilità dei processi di feedback climatico in condizioni di bassa insolazione (8, 9). Di conseguenza, l’ampiezza del ciclo stagionale si riduce di circa 2°C per ogni grado di riscaldamento globale, con un impatto diretto sugli estremi freddi invernali, che subiscono un riscaldamento significativo e perdono la loro caratteristica severità (9). Questo fenomeno non solo altera i pattern climatici locali, ma ha anche ripercussioni sugli ecosistemi, sulle comunità indigene e sulle attività economiche che dipendono dalla stabilità stagionale.
Il riscaldamento amplificato dell’Artico si accompagna a una riduzione drastica e persistente della copertura di ghiaccio marino durante tutto l’anno, con effetti particolarmente evidenti nel mese di settembre, quando si registra il minimo annuale di estensione del ghiaccio (Fig. 2A). Durante l’epoca preindustriale e fino alla fine del XX secolo, l’Oceano Artico era caratterizzato da una copertura di ghiaccio perenne stabile, che fungeva da elemento chiave per la regolazione del clima globale e per la conservazione degli habitat marini. Tuttavia, a partire dall’inizio del XXI secolo, si sono osservate riduzioni significative della copertura glaciale, culminate nel 2012, quando l’estensione minima del ghiaccio marino (SIE, definita come l’area con almeno il 15% di concentrazione di ghiaccio) è scesa al di sotto dei 4 milioni di km² per la prima volta nella storia moderna, rappresentando una diminuzione del 50% rispetto alla media del periodo 1979-1997 (10). In uno scenario di riscaldamento globale di 1,5°C, il ghiaccio marino estivo pan-artico dovrebbe stabilizzarsi intorno a questi livelli ridotti, con la possibilità di un settembre occasionalmente privo di ghiaccio (SIE < 1 milione di km²) tra il 2030 e il 2050, indipendentemente dallo scenario di emissione dei percorsi socioeconomici condivisi (SSP) adottato (11, 12). Prevedere con precisione il momento esatto di un anno privo di ghiaccio, o di condizioni regionalmente prive di ghiaccio, come la stagione record di acque aperte nel Passaggio a Nord-Ovest (NWP) registrata nel 2024, rimane complesso a causa della variabilità interna del sistema climatico, che domina le fluttuazioni del ghiaccio marino su scale temporali sub-decennali (13). Tuttavia, recenti stime suggeriscono che l’SIE giornaliero potrebbe scendere al di sotto di 1 milione di km² già prima del 2030, evidenziando la rapidità del processo di declino (14).
Tale variabilità interna spiega anche l’assenza di nuovi minimi record di ghiaccio marino pan-artico dal 2012. Negli ultimi anni, un persistente schema di dipolo artico, combinato con gli effetti del trasporto di calore oceanico nell’Artico e del trasporto di acqua dolce dall’apporto dei fiumi siberiani nell’Artico canadese, ha contribuito a stabilizzare la copertura di ghiaccio a circa la metà della sua estensione preindustriale (15). Tuttavia, su scale temporali decennali e oltre, la perdita di ghiaccio marino e l’aumento della temperatura media globale rimangono strettamente correlati, in modo lineare, alla quantità di emissioni di gas serra antropogeniche (16, 17). Questo implica che, in assenza di una riduzione significativa delle emissioni nette di gas serra, il ghiaccio marino artico continuerà a diminuire, con implicazioni profonde per la regolazione del clima globale, la biodiversità marina e le attività socioeconomiche, come la navigazione e la pesca, che dipendono dalla presenza di ghiaccio. Questi risultati sottolineano l’importanza di intensificare gli sforzi globali per limitare il riscaldamento a 1,5°C, al fine di mitigare i rischi associati alla perdita irreversibile della criosfera artica e di preservare, per quanto possibile, l’integrità di questa regione cruciale per il pianeta.
Analogamente alla rapida e significativa risposta dell’estensione del ghiaccio marino al riscaldamento globale, l’area di fusione superficiale della calotta glaciale della Groenlandia subisce un’espansione marcata in concomitanza con l’aumento delle temperature globali (Fig. 2B). In uno scenario di riscaldamento globale di +1,5°C, l’area che sperimenta condizioni di fusione per più di un mese all’anno più che raddoppia rispetto alle condizioni preindustriali, evidenziando la sensibilità della superficie glaciale alle variazioni termiche. Tuttavia, i cambiamenti nel bilancio di massa totale della calotta groenlandese si manifestano su scale temporali molto più lunghe, rendendo complessa la valutazione delle dinamiche attuali rispetto al passato preindustriale. Le limitazioni derivano sia dalla breve durata del periodo osservativo disponibile, che non consente di catturare pienamente le tendenze di lungo termine, sia dalle incertezze nei modelli climatici, aggravate dalla variabilità climatica sia a breve che a lungo termine (5). Nonostante tali sfide, le osservazioni storiche indicano che, per gran parte del XX secolo, la calotta glaciale della Groenlandia manteneva un equilibrio relativo, con il guadagno annuale di massa derivante dalle precipitazioni nevose bilanciato dalla perdita di massa dovuta al distacco di iceberg e al deflusso di acqua di fusione. Tuttavia, a livelli di riscaldamento globale prossimi a 1,5°C, la Groenlandia ha iniziato a perdere massa a un ritmo accelerato, un processo iniziato negli anni ’80 (18) e intensificatosi nei primi due decenni del XXI secolo. Attualmente, la perdita annuale di ghiaccio è stimata in circa 270 gigatonnellate (Gt), un valore sei volte superiore al tasso osservato negli anni ’80, equivalente a una quantità di ghiaccio che, se distribuita, potrebbe coprire un’area delle dimensioni dell’isola di Manhattan con uno strato di ghiaccio spesso circa 3 km. Questa perdita contribuisce in modo significativo all’innalzamento del livello del mare (SLR), con un apporto stimato di circa 0,75 mm all’anno, rappresentando approssimativamente il 20% dell’aumento totale osservato (19, 20). Sebbene la fusione superficiale rappresenti attualmente il principale contributo alla perdita di massa della Groenlandia (21), studi recenti hanno evidenziato che le stime precedenti potrebbero essere sottovalutate, poiché non tenevano conto del ritiro dei fronti dei ghiacciai che terminano in mare (22). Questo ritiro ha generato una perdita aggiuntiva di 1140 Gt di massa tra il 1985 e il 2022, oltre ai 5390 Gt stimati per il periodo 1992-2020 dall’Esercizio di Confronto del Bilancio di Massa della Calotta Glaciale (IMBIE) (17). Sebbene la perdita di massa dalle porzioni flottanti dei ghiacciai marini non contribuisca direttamente all’innalzamento del livello del mare, poiché il ghiaccio era già immerso nell’oceano, tali evidenze confermano che il ritiro dei ghiacciai ha superato di gran lunga la crescita del ghiaccio nelle ultime decadi. Inoltre, il ritiro dei fronti glaciali può innescare un’accelerazione della scarica di ghiaccio nelle regioni più interne, evidenziando il ruolo cruciale dei ghiacciai che terminano in mare nella dinamica complessiva della perdita di massa della Groenlandia (23).
Il tempo di risposta del permafrost, ovvero il terreno perennemente congelato, si colloca tra quello del ghiaccio marino, caratterizzato da risposte rapide, e la perdita di massa della calotta glaciale, che si sviluppa su scale temporali più lunghe. Il permafrost occupa circa 15 milioni di km² nelle alte latitudini settentrionali, un’estensione paragonabile alle dimensioni del Nord America (24), e può raggiungere spessori di centinaia di metri nelle regioni più fredde. È il permafrost superficiale, che si estende da 0 a 3 metri di profondità, a rispondere più rapidamente al riscaldamento globale, esercitando un’influenza diretta sugli ecosistemi e sulle comunità umane (6). L’intera regione del permafrost settentrionale contiene da 1440 a 1600 Gt di carbonio organico, con una stima aggiuntiva, ancora scarsamente quantificata, di circa 1000 Gt in depositi più profondi e nel permafrost sottomarino (25, 26). Questa quantità di carbonio è equivalente a due o tre volte il carbonio attualmente presente nell’atmosfera, rendendo il rilascio di anche solo una piccola frazione di questo vasto serbatoio di carbonio congelato un fattore potenzialmente significativo nell’aumento delle concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica e metano, con conseguenti effetti di amplificazione del cambiamento climatico. In uno scenario di riscaldamento globale di 1,5°C, le simulazioni modellistiche prevedono una riduzione dell’area di permafrost superficiale di circa il 25% rispetto alle condizioni preindustriali (Fig. 2C). Questi risultati sono coerenti con le osservazioni, che documentano cambiamenti diffusi nei paesaggi di permafrost: le temperature del permafrost più profondo, misurate a una profondità compresa tra 15 e 25 metri attraverso una rete di pozzi di sondaggio, raggiungono livelli record anno dopo anno, con i valori registrati nel 2023 che rappresentano i più alti mai osservati (27). Questi dati evidenziano la vulnerabilità del permafrost al riscaldamento globale e sottolineano l’urgenza di approfondire la comprensione delle sue dinamiche, al fine di mitigare i rischi associati al rilascio di gas serra e di preservare la stabilità degli ecosistemi e delle infrastrutture nelle regioni artiche.I cambiamenti di temperatura assoluti si manifestano con maggiore intensità nelle regioni di permafrost più fredde situate alle latitudini settentrionali più elevate, dove il riscaldamento è più pronunciato. Al contrario, nelle regioni più meridionali, gli incrementi termici di minore entità riflettono un utilizzo dell’energia termica prevalentemente diretto alla fusione del ghiaccio contenuto nel terreno di permafrost, un processo che contribuisce alla degradazione strutturale del permafrost stesso. Questa degradazione superficiale, che si manifesta attraverso fenomeni di disgelo improvviso e alterazioni nella profondità dello strato attivo superficiale che si scongela stagionalmente durante l’estate, è un fenomeno ampiamente diffuso, sebbene la sua estensione e i meccanismi che lo determinano presentino variazioni significative a livello regionale e temporale, riflettendo la complessità delle interazioni tra clima, suolo e processi biogeochimici (28–30).
Parallelamente, gli ecosistemi associati alle regioni di permafrost stanno subendo trasformazioni profonde, con evidenze che indicano una transizione di alcuni di questi sistemi verso un ruolo di fonti nette di emissione di carbonio nell’atmosfera (31, 32). Questo cambiamento è indicativo del superamento di punti di svolta ecologici, già osservati ai livelli attuali di riscaldamento globale di circa 1,5°C, che segnano una soglia critica oltre la quale la capacità di questi ecosistemi di agire come serbatoi di carbonio si inverte (33). Tuttavia, non tutti gli ecosistemi della regione mostrano questa tendenza: alcuni ecosistemi non di permafrost, particolarmente quelli interessati dal fenomeno del “greening” artico, continuano a funzionare come serbatoi netti di carbonio, grazie all’aumento della produttività vegetale favorito dal riscaldamento e dall’allungamento della stagione di crescita (34). Nonostante questa variabilità, evidenze accumulatesi a scala regionale, ottenute attraverso misurazioni terrestri e aeree, confermano che intere regioni dell’Artico sono già diventate fonti nette di carbonio per l’atmosfera (35, 36). Queste osservazioni, tuttavia, si discostano dalle proiezioni dei modelli di sistema terrestre su larga scala (37) e dai modelli di inversione delle concentrazioni atmosferiche di gas serra (38), evidenziando la necessità di ulteriori ricerche per colmare le discrepanze tra dati osservativi e simulazioni modellistiche. L’Artico, nel suo ruolo emergente di fonte netta di carbonio a scala regionale, rappresenta una soglia inequivocabile per l’attivazione del feedback del carbonio del permafrost al cambiamento climatico, un processo che amplifica il riscaldamento globale attraverso il rilascio di anidride carbonica e metano precedentemente immagazzinati nel suolo congelato. Parallelamente, l’indebolimento della capacità di assorbimento del carbonio a lungo termine, anche in assenza di una completa transizione verso un ruolo di fonte netta, come osservato attualmente e con una rapidità superiore alle previsioni dei modelli, contribuisce già ad accelerare il cambiamento climatico, evidenziando la vulnerabilità dei sistemi naturali dell’Artico alle attuali traiettorie di riscaldamento (26).
Con l’attuale livello di riscaldamento globale di circa 1,5°C, l’Artico si trova in uno stato significativamente diverso rispetto alle condizioni preindustriali, con alterazioni che riguardano l’intera criosfera, inclusi ghiaccio marino, calotta glaciale e permafrost. Anche nell’ipotesi di una stabilizzazione immediata delle temperature globali a 1,5°C, la criosfera artica continuerà a subire una riduzione progressiva, che si manifesterà su un’ampia gamma di scale temporali e spaziali. Questo processo è guidato dalla natura inerziale dei cambiamenti climatici e dalla persistenza dei feedback positivi, come il rilascio di gas serra dal permafrost e la riduzione dell’albedo associata alla perdita di ghiaccio marino, che perpetuano il riscaldamento e compromettono la stabilità degli ecosistemi e delle infrastrutture della regione. Questi risultati sottolineano l’urgenza di intensificare gli sforzi globali per limitare il riscaldamento al di sotto della soglia di 1,5°C, al fine di mitigare i rischi associati alla perdita irreversibile della criosfera artica e di preservare, per quanto possibile, la funzionalità ecologica e climatica di questa regione cruciale per il pianeta.

Analisi dettagliata delle distribuzioni di temperatura superficiale dell’Artico in risposta al riscaldamento globale: un’interpretazione basata sui dati della Figura 1
La Figura 1 offre una rappresentazione quantitativa e visiva delle variazioni nelle distribuzioni di probabilità delle anomalie giornaliere della temperatura dell’aria superficiale media nell’Artico (Surface Air Temperature, SAT) in relazione a diversi scenari di riscaldamento globale, confrontando le condizioni preindustriali con livelli di incremento termico di +1,5°C e +2,7°C. Questi dati sono stati generati tramite simulazioni condotte con il modello di sistema terrestre del Max Planck Institute Earth System Model versione 1.2 a bassa risoluzione (MPI-ESM1.2-LR) in un grande ensemble, con dettagli metodologici e tecnici disponibili nei materiali supplementari, garantendo un quadro robusto per l’analisi delle dinamiche climatiche artiche.
Struttura e Metodologia della Rappresentazione
La figura è strutturata in cinque pannelli distinti, ciascuno dedicato a una specifica finestra temporale: la media annuale e le quattro stagioni principali, ovvero inverno (Dicembre-Gennaio-Febbraio, DJF), primavera (Marzo-Aprile-Maggio, MAM), estate (Giugno-Luglio-Agosto, JJA) e autunno (Settembre-Ottobre-Novembre, SON). Ogni pannello illustra la distribuzione di probabilità delle anomalie della SAT rispetto ai valori di riferimento preindustriali, con l’asse orizzontale che quantifica le deviazioni termiche in gradi Celsius (°C) rispetto alla baseline preindustriale (anomalie negative indicano temperature più fredde, mentre quelle positive indicano temperature più calde) e l’asse verticale che rappresenta la densità di probabilità, ossia la frequenza relativa delle occorrenze di tali anomalie. Le distribuzioni sono codificate per colore in base ai livelli di riscaldamento globale: grigio per le condizioni preindustriali, arancione per +1,5°C e rosso per +2,7°C, consentendo un confronto diretto tra gli scenari.
Interpretazione dei Dati Climatici
- Media Annuale:
Nella condizione preindustriale, rappresentata dalla curva grigia, la distribuzione delle anomalie giornaliere della SAT è centrata attorno a 0°C, con una simmetria che riflette un equilibrio termico stagionale tipico di un clima artico stabile. Con un incremento globale di +1,5°C, la curva arancione si sposta verso destra, evidenziando un aumento della probabilità di anomalie positive e un conseguente riscaldamento medio delle temperature giornaliere. A +2,7°C, la curva rossa mostra un ulteriore spostamento e un’estensione della coda verso valori di anomalia più elevati, indicando una marcata intensificazione della frequenza di giornate caratterizzate da temperature eccezionalmente calde, con implicazioni significative per la criosfera e gli ecosistemi. - Dinamiche Stagionali:
- Inverno (DJF): La distribuzione preindustriale presenta una maggiore probabilità di anomalie negative, riflettendo le temperature rigide tipiche della stagione. Con il riscaldamento a +1,5°C e +2,7°C, la curva si sposta progressivamente verso valori positivi, riducendo drasticamente la probabilità di anomalie negative e suggerendo che gli estremi di freddo invernale, un tempo comuni, diventeranno eventi rari o assenti. Questo spostamento riflette l’amplificazione del riscaldamento invernale, guidata da feedback positivi come la riduzione dell’albedo.
- Primavera (MAM): Similmente all’inverno, la distribuzione preindustriale mostra una prevalenza di anomalie vicine allo zero o leggermente negative. A +1,5°C e +2,7°C, si osserva un’accelerazione verso anomalie positive, con un aumento della probabilità di temperature più miti, sebbene l’entità del cambiamento sia meno pronunciata rispetto all’inverno, indicando una transizione graduale verso condizioni termiche più favorevoli alla fusione superficiale.
- Estate (JJA): La distribuzione preindustriale già include alcune anomalie positive, coerenti con le temperature più elevate tipiche della stagione. A +1,5°C, queste anomalie diventano dominanti, e a +2,7°C il picco della distribuzione si sposta ulteriormente verso temperature significativamente più alte, riflettendo un’intensificazione del riscaldamento estivo che amplifica la perdita di ghiaccio marino e la destabilizzazione della criosfera.
- Autunno (SON): La stagione autunnale mostra un cambiamento particolarmente evidente, con una distribuzione che, a +2,7°C, presenta una coda estesa verso anomalie positive. Questo fenomeno è attribuibile al ritardo nella formazione del ghiaccio marino, che riduce la riflettanza superficiale e aumenta l’assorbimento di energia solare, accentuando il riscaldamento locale e contribuendo a un feedback positivo climatico.
Implicazioni Scientifiche e Climatiche
La Figura 1 evidenzia come il riscaldamento globale induca uno spostamento sistematico della distribuzione delle temperature giornaliere artiche verso valori più elevati, con un’amplificazione particolarmente marcata a +2,7°C rispetto a +1,5°C. Tale spostamento è più pronunciato nelle stagioni fredde (inverno e autunno), dove gli estremi di freddo preindustriali vengono sostituiti da condizioni termiche più calde, mentre l’estate mostra un incremento della probabilità di temperature eccezionalmente elevate. Questi pattern riflettono l’azione di feedback climatici locali, tra cui la diminuzione dell’albedo dovuta alla perdita di ghiaccio marino e l’incremento dell’assorbimento di radiazione solare, che amplificano il riscaldamento regionale a un tasso superiore alla media globale. L’evoluzione da +1,5°C a +2,7°C suggerisce un’accelerazione dei rischi associati alla criosfera artica, con potenziali impatti globali quali l’innalzamento del livello del mare, il rilascio di gas serra dal permafrost e la destabilizzazione degli ecosistemi. Questi risultati evidenziano la necessità urgente di limitare il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 1,5°C per attenuare le trasformazioni irreversibili della regione artica, preservandone la funzionalità ecologica e climatica critica per il sistema terrestre.

Analisi approfondita delle trasformazioni della criosfera artica in risposta al riscaldamento globale: un’interpretazione dettagliata della Figura 2 basata su simulazioni modellistiche
La Figura 2 offre una rappresentazione grafica e quantitativa delle variazioni spaziali nelle estensioni del ghiaccio marino artico, dell’area di fusione della calotta glaciale della Groenlandia e dell’area di permafrost nell’emisfero boreale, confrontando tre distinti scenari di riscaldamento globale: i livelli preindustriali, un incremento di +1,5°C e un incremento più significativo di +2,7°C rispetto alla baseline preindustriale. Questi dati sono stati elaborati mediante simulazioni avanzate condotte con il Max Planck Institute Earth System Model versione 1.2 a bassa risoluzione (MPI-ESM1.2-LR) per il ghiaccio marino, il modello ACCESS-ESM1.5 per la quantificazione dei giorni di fusione in Groenlandia, e una selezione di 13 modelli del Coupled Model Intercomparison Project Phase 6 (CMIP6) per l’analisi del permafrost, con dettagli tecnici e metodologici forniti nei materiali supplementari, garantendo un quadro scientifico robusto e dettagliato.
Struttura e Metodologia della Rappresentazione
La figura è organizzata in tre pannelli distinti, ciascuno focalizzato su un componente critico della criosfera artica:
- Pannello A: Rappresenta l’area totale dell’Oceano Artico (resa in blu scuro) sovrastata dall’estensione del ghiaccio marino in settembre (in bianco), con una gradazione cromatica dal bianco al blu che codifica la probabilità di copertura di ghiaccio marino in un dato anno, calcolata sulla base della variabilità interannuale dell’area di ghiaccio corretto per bias derivante dal grande ensemble MPI-ESM1.2-LR.
- Pannello B: Illustra l’intera superficie della Groenlandia (sfondo chiaro) sovrastata dall’area soggetta a fusione, con una scala cromatica dal bianco al rosso che riflette il numero medio di giorni di fusione all’anno (definiti come giorni con temperatura dell’aria superficiale media giornaliera superiore a 0°C), stimati tramite il modello ACCESS-ESM1.5.
- Pannello C: Mostra l’area terrestre a nord dei 45°N (in grigio) sovrastata dall’estensione del permafrost nell’emisfero boreale (in viola), con una transizione dal viola al grigio che indica la probabilità di copertura del permafrost superficiale a diverse temperature globali, basata sull’incertezza modellistica aggregata dei 13 modelli CMIP6 selezionati.
Interpretazione Dettagliata dei Pannelli
- Pannello A: Estensione del Ghiaccio Marino Artico in Settembre
- Condizioni Preindustriali: L’area di ghiaccio marino artico (bianco) copre una porzione estesa e relativamente uniforme dell’Oceano Artico, con una probabilità di copertura elevata, riflettendo una criosfera stabile e perenne che fungeva da regolatore termico e habitat ecologico fondamentale.
- Scenario a +1,5°C: Si osserva una contrazione significativa dell’estensione del ghiaccio, con un nucleo centrale di copertura ancora presente ma circondato da una zona di transizione verso il blu, indicando una diminuzione della probabilità di copertura e una maggiore variabilità interannuale, sintomatica di un sistema criosferico in fase di destabilizzazione.
- Scenario a +2,7°C: L’area di ghiaccio si riduce ulteriormente, limitandosi a una piccola regione centrale con una probabilità di copertura estremamente bassa, suggerendo che l’Oceano Artico potrebbe sperimentare condizioni quasi prive di ghiaccio per diversi mesi estivi. Questo fenomeno è amplificato da feedback positivi, come la riduzione dell’albedo dovuta alla diminuzione della riflettanza superficiale.
- Pannello B: Area di Fusione della Calotta Glaciale della Groenlandia
- Condizioni Preindustriali: L’area soggetta a fusione è minima e confinata a regioni localizzate, con una probabilità di giorni di fusione ridotta (colori chiari), coerente con un bilancio di massa glaciale relativamente stabile, dominato da un equilibrio tra accumulo nevoso e perdita per fusione e distacco di iceberg.
- Scenario a +1,5°C: L’area di fusione si espande sensibilmente, con una probabilità crescente di giorni di fusione (colori intermedi), che più che raddoppia rispetto al preindustriale, interessando vaste regioni costiere e interne della Groenlandia, con implicazioni per l’accelerazione della perdita di massa.
- Scenario a +2,7°C: L’espansione della zona di fusione raggiunge livelli critici, con una significativa porzione della calotta glaciale che sperimenta un numero elevato di giorni di fusione (colori scuri), indicando un’intensificazione del processo di ablazione superficiale e un contributo sostanziale all’innalzamento globale del livello del mare.
- Pannello C: Estensione del Permafrost nell’Emisfero Boreale
- Condizioni Preindustriali: L’area di permafrost (viola) copre estensivamente le regioni settentrionali, con una probabilità di copertura superficiale elevata, riflettendo la stabilità termica e la presenza di suoli congelati che fungono da serbatoi di carbonio.
- Scenario a +1,5°C: Si registra una riduzione dell’estensione del permafrost, con una transizione verso il grigio che segnala una diminuzione della probabilità di copertura superficiale stimata intorno al 25%, attribuibile alla fusione del ghiaccio nel suolo e alla conseguente destabilizzazione termica.
- Scenario a +2,7°C: La contrazione del permafrost diventa ancora più pronunciata, con una perdita significativa che potrebbe raggiungere circa il 50% rispetto al preindustriale, evidenziando un rischio crescente di rilascio di gas serra immagazzinati e di alterazioni ecologiche su larga scala.
Implicazioni Scientifiche e Climatiche
La Figura 2 fornisce un quadro dettagliato delle trasformazioni indotte dal riscaldamento globale sulla criosfera artica, rivelando una progressione non lineare negli impatti. Il ghiaccio marino artico risponde con una sensibilità acuta, mostrando una riduzione drastica già a +1,5°C e un potenziale collasso a +2,7°C, amplificato dai feedback di albedo che intensificano l’assorbimento di radiazione solare. La calotta glaciale della Groenlandia, pur con dinamiche a scala temporale più lunga, evidenzia un’espansione della fusione superficiale che si intensifica con l’aumentare del riscaldamento, contribuendo significativamente all’innalzamento del livello del mare. Il permafrost, con un tempo di risposta intermedio, subisce una degradazione graduale ma crescente, con implicazioni critiche per il rilascio di carbonio e metano, potenzialmente innescando un feedback positivo che accelera ulteriormente il cambiamento climatico. Questi risultati, derivati da modelli climatici di ultima generazione, sottolineano l’importanza cruciale di limitare il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 1,5°C per attenuare le trasformazioni irreversibili della criosfera artica, preservandone il ruolo di regolatore climatico e la biodiversità associata, con ripercussioni globali di vasta portata.
L’Artico sotto l’influenza delle attuali Contribuzioni Determinate a Livello Nazionale (NDCs): Impatti previsionali a 2,7°C di riscaldamento globale
Qualora il riscaldamento globale raggiunga i 2,7°C sopra i livelli preindustriali entro la fine del presente secolo, come ipotizzato sulla base delle attuali Contribuzioni Determinate a Livello Nazionale (NDCs) per la riduzione delle emissioni di gas serra, gli effetti sull’ecosistema artico supereranno di gran lunga quelli attualmente osservati. In tale scenario, le temperature dell’aria nell’Artico eccederanno gli estremi termici registrati in epoca preindustriale per praticamente ogni giorno dell’anno, con un incremento medio atteso durante la stagione invernale che potrebbe superare i 10°C, come illustrato nella Figura 1. A tali livelli di riscaldamento, la copertura di ghiaccio perenne dell’Oceano Artico scomparirà completamente in ogni anno (Figg. 2A e 3), rappresentando un fenomeno senza precedenti nella storia umana. Questa condizione di assenza di ghiaccio si protrarrà per diversi mesi durante l’estate, diventando una caratteristica ricorrente annualmente (39). L’ultima volta che l’Oceano Artico ha sperimentato periodi prolungati di assenza di ghiaccio risale all’ultimo Interglaciale, circa 130.000 anni fa (40). Durante l’inverno, la copertura di ghiaccio marino sarà notevolmente più sottile rispetto alla situazione attuale e non si estenderà più regolarmente fino alle coste, a causa della riduzione della stagione di crescita del ghiaccio e dell’intenso riscaldamento invernale che compromette la formazione e la persistenza del ghiaccio.
La calotta glaciale della Groenlandia subirà un’accelerazione significativa dei processi di fusione a 2,7°C, con l’area interessata da temperature superficiali superiori a 0°C per oltre un mese che quadruplicherà rispetto alle condizioni preindustriali (Figg. 2B e 3). Tale espansione della fusione superficiale sarà amplificata dalla diminuzione dell’albedo, che favorirà un incremento del deflusso di acqua di fusione (41). Questo deflusso rappresenta un fattore determinante nell’aumento della perdita di massa della calotta glaciale, contribuendo a un’accelerazione dell’innalzamento globale del livello del mare stimato in diversi centimetri nei prossimi decenni (42). Inoltre, il contributo della Groenlandia all’innalzamento del livello del mare potrebbe incrementarsi ulteriormente a causa del potenziale collasso parziale dei ghiacciai di sbocco situati nel nord della Groenlandia. Questi ghiacciai, i cui bacini a monte contengono una quantità di ghiaccio sufficiente a provocare un innalzamento del livello del mare globale di circa 2,1 metri, stanno già manifestando perdite di massa significative tra il 2000 e il 2020, attribuibili all’aumento delle temperature oceaniche che inducono uno scioglimento basale accelerato (43). Tuttavia, a causa della complessità delle interazioni tra numerosi feedback positivi e negativi e della limitata capacità dei modelli climatici di simulare con accuratezza tali dinamiche, l’incertezza relativa alle stime quantitative del contributo netto della Groenlandia all’innalzamento del livello del mare a 2,7°C rimane considerevole (5). Una stima recente suggerisce un contributo della Groenlandia pari a 20 ± 0,9 cm nei prossimi 80 anni (44).
Resta ancora oggetto di dibattito scientifico se la perdita di massa a lungo termine della calotta glaciale della Groenlandia possa evolversi verso un processo irreversibile, così come il periodo temporale necessario per raggiungere tale punto critico. Le simulazioni modellistiche che non tengono conto dei feedback legati alla variazione dell’altitudine indicano che il bilancio di massa superficiale della calotta potrebbe diventare negativo a 2,7°C, suggerendo una potenziale perdita di ghiaccio irreversibile a questo livello di riscaldamento (45). Altre ricerche propongono che tale soglia di irreversibilità potrebbe situarsi tra 1,7°C e 2,3°C di riscaldamento globale (46, 47) o essere correlata a emissioni cumulative di carbonio comprese tra 1000 e 1500 Gt C (48). Queste discrepanze riflettono la complessità dei processi criosferici e l’urgenza di approfondire la comprensione delle dinamiche glaciali per migliorare le proiezioni future e informare strategie di mitigazione climatica efficaci.
Alcuni studi avanzano l’ipotesi che non esista una soglia definita di riscaldamento o di concentrazione di CO2, ma piuttosto un continuum di masse stazionarie della calotta glaciale della Groenlandia associate a diversi incrementi di temperatura globale (49). Ciononostante, tali incertezze non mutano il fatto che, con un progressivo aumento del riscaldamento, la perdita di massa della Groenlandia subirà un’accelerazione significativa, raggiungendo un nuovo equilibrio solo dopo perdite nette di massa di entità crescente. I dati geologici suggeriscono che, circa 400.000 anni fa, durante il periodo interglaciale denominato stadio 11, quando il riscaldamento globale era verosimilmente inferiore a 2,7°C, la Groenlandia potrebbe aver subito una riduzione della sua massa glaciale pari a circa il 20%, contribuendo a un innalzamento del livello del mare globale di diversi metri (50, 51). Questo processo di perdita di ghiaccio si svilupperà su scale temporali estese, potenzialmente comprese tra secoli e millenni, mentre la ricostituzione della massa glaciale in un clima più freddo richiederebbe un intervallo temporale ancora più lungo. Di conseguenza, qualora a 2,7°C di riscaldamento globale si verificasse la perdita di porzioni sostanziali della calotta glaciale groenlandese, tale ghiaccio potrebbe essere considerato irrecuperabile su qualsiasi scala temporale significativa per l’umanità.
In aggiunta, a un livello di riscaldamento globale di 2,7°C, si anticiperà una riduzione considerevole dell’area di permafrost superficiale. Le proiezioni basate sui modelli del Coupled Model Intercomparison Project Phase 6 (CMIP6) indicano una perdita stimata di circa 8 milioni di km², corrispondente a circa il 50% dell’estensione preindustriale, assumendo l’assenza di permafrost nei primi 0-3 metri di profondità (Figg. 2C e 3; si rimanda ai materiali e metodi per ulteriori dettagli). Nelle regioni residue di permafrost, si prevede un incremento della profondità dello strato attivo (52), il che, anche nelle località caratterizzate dalle temperature più basse, darà luogo a fenomeni di subsidenza superficiale e disgelo improvviso in aree con accumuli significativi di ghiaccio (6, 53). Sebbene l’incremento delle temperature artiche costituisca il principale fattore trainante dello scioglimento del permafrost, ulteriori perturbazioni derivanti dall’aumento della frequenza di eventi estremi di pioggia e dagli incendi boschivi amplificheranno la velocità di degradazione del permafrost. Pertanto, le trasformazioni del permafrost si manifesteranno probabilmente come disturbi episodici, correlati a eventi estremi a scala regionale quali ondate di calore e precipitazioni intense, piuttosto che come un processo di cambiamento graduale e uniforme.
Lo scioglimento del permafrost a 2,7°C di riscaldamento globale potrebbe rilasciare nell’atmosfera un’ulteriore quantità di 117 gigatonnellate di carbonio (in equivalenti di CO2), sotto forma di anidride carbonica e metano, entro il 2100 (Fig. 3), con entrambi i gas che svolgono un ruolo parimenti critico nel feedback climatico (26). Tale quantità di carbonio è comparabile a quella potenzialmente emessa da una grande nazione industrializzata nel medesimo periodo, contribuendo a un incremento delle emissioni di carbonio dal 10 al 15% rispetto a quelle di origine antropica. A livello globale, questo rilascio di anidride carbonica e metano ridurrà il budget di carbonio residuo disponibile per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo prefissato di limitazione del riscaldamento globale (54). Ad esempio, il Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC (AR6) ha stimato che il budget di carbonio rimanente per mantenere il riscaldamento globale a 1,5°C sia di circa 140 gigatonnellate di carbonio oltre il 2020; i vincoli emergenti dall’alto indicano un budget residuo a partire dal 2020 pari a 186 ± 116 gigatonnellate di carbonio (55). Queste proiezioni evidenziano l’urgenza di adottare misure mitigative per contenere le emissioni, al fine di preservare la stabilità climatica e mitigare gli impatti irreversibili sulla criosfera artica.

Analisi dettagliata delle trasformazioni criosferiche e climatiche dell’Artico: un’interpretazione scientifica della Figura 3 basata su scenari di riscaldamento globale a 1,5°C e 2,7°C
La Figura 3 fornisce una rappresentazione grafica e analitica delle dinamiche evolutive dell’Artico sotto due scenari di riscaldamento globale, confrontando le condizioni attuali, prossime a un incremento di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, con quelle proiettate per un futuro a 2,7°C, con particolare attenzione a tre elementi fondamentali della criosfera: l’estensione del ghiaccio marino in settembre, l’area di fusione della calotta glaciale della Groenlandia superiore a 30 giorni e l’estensione del permafrost con uno spessore minimo di 3 metri. La figura integra inoltre le emissioni aggiuntive di gas serra derivanti dalla degradazione del permafrost e il contributo previsto all’innalzamento del livello del mare risultante dalla perdita di massa della Groenlandia, offrendo un quadro sintetico ma esaustivo delle implicazioni climatiche. I dati sottostanti derivano da modelli climatici avanzati, con dettagli metodologici impliciti nelle simulazioni sottostanti.
Struttura e Metodologia della Rappresentazione
La figura è strutturata in tre sezioni orizzontali distinte:
- Sezione Superiore: Comprende mappe comparative dell’Artico che illustrano le variazioni spaziali nell’estensione del ghiaccio marino di settembre, nell’area di fusione della Groenlandia (definita come il numero di giorni con temperature superficiali medie superiori a 0°C per più di 30 giorni all’anno) e nell’area coperta da permafrost con almeno 3 metri di spessore, confrontando lo stato attuale prossimo a 1,5°C con le proiezioni a 2,7°C.
- Sezione Centrale: Presenta le emissioni aggiuntive di gas serra (espresse in petagrammi di carbonio, Pg C, in equivalenti di CO2) rilasciate dalla degradazione del permafrost a 2,7°C, accompagnate da un diagramma a torta che quantifica la proporzione relativa di metano (CH4) e anidride carbonica (CO2), evidenziandone il contributo al feedback climatico.
- Sezione Inferiore: Offre una rappresentazione schematica a sezione trasversale dei profili del permafrost e della calotta glaciale della Groenlandia, illustrando i processi di disgelo stagionale e basale, nonché il contributo stimato all’innalzamento del livello del mare, con annotazioni quantitative per entrambi gli scenari.
Interpretazione Dettagliata delle Sezioni
- Sezione Superiore: Mappatura delle Variazioni Criosferiche
- Estensione del Ghiaccio Marino di Settembre:
- Nello scenario attuale prossimo a 1,5°C, l’area di ghiaccio marino è significativamente ridotta rispetto alle condizioni preindustriali, ma conserva una copertura rilevante nelle regioni centrali del Mar Glaciale Artico, indicando una transizione verso una criosfera più vulnerabile.
- A 2,7°C, l’estensione del ghiaccio marino collassa quasi completamente, con l’annotazione “No summer sea ice” che denota l’assenza di ghiaccio estivo per diversi mesi consecutivi, un fenomeno attribuibile alla perdita di albedo e all’amplificazione del riscaldamento regionale indotto dai feedback climatici.
- Area di Fusione della Groenlandia (>30 giorni):
- A 1,5°C, l’area soggetta a più di 30 giorni di fusione è limitata a zone costiere e alcune regioni interne, riflettendo un’espansione iniziale della fusione superficiale.
- A 2,7°C, questa area si espande drasticamente, coprendo gran parte della calotta glaciale, con l’indicazione “Loss of surface melt >30 days of melt” che evidenzia un incremento quadruplo rispetto al preindustriale, accentuando la perdita di massa glaciale.
- Estensione del Permafrost (≥3 m):
- Nello scenario a 1,5°C, il permafrost con almeno 3 metri di spessore rimane relativamente intatto (“Intact permafrost”), coprendo vaste aree dell’Artico settentrionale.
- A 2,7°C, si osserva una perdita significativa (“Loss of surface permafrost”), con una riduzione stimata del 50% dell’estensione preindustriale, dovuta alla fusione del ghiaccio nel suolo e alla destabilizzazione termica.
- Estensione del Ghiaccio Marino di Settembre:
- Sezione Centrale: Emissioni di Gas Serra dal Permafrost a 2,7°C
- A 2,7°C, la degradazione del permafrost rilascia un volume aggiuntivo di gas serra stimato in un certo numero di petagrammi di carbonio (Pg C) in equivalenti CO2, con un diagramma a torta che delinea la proporzione di metano (CH4) e anidride carbonica (CO2).
- Il metano, caratterizzato da un elevato potenziale di riscaldamento globale, e la CO2 contribuiscono in modo sinergico al feedback climatico, con un impatto cumulativo che può aggiungere dal 10 al 15% alle emissioni antropogeniche, paragonabile alle emissioni di una grande nazione industrializzata, riducendo il budget di carbonio rimanente per limitare il riscaldamento globale.
- Sezione Inferiore: Dinamiche di Disgelo e Contributo all’Innalzamento del Livello del Mare
- Scenario a 1,5°C: La sezione trasversale mostra un permafrost con uno strato attivo stagionale limitato (“Seasonal thaw”) e un disgelo basale moderato della Groenlandia (“Basal melt”), con una massa glaciale relativamente stabile e un contributo trascurabile all’innalzamento del livello del mare.
- Scenario a 2,7°C: Il permafrost è soggetto a un disgelo più esteso (“More thawed”), con subsidenza e collassi improvvisi in aree ricche di ghiaccio, mentre la Groenlandia subisce un’accelerazione del disgelo superficiale e basale (“Greenland ice margin”). L’annotazione “AI ~2.7°C Greenland 20 ± 0.9 cm by 2100” quantifica un contributo atteso di 20 ± 0.9 cm all’innalzamento del livello del mare entro il 2100, con rischi aggiuntivi legati alla potenziale instabilità dei ghiacciai di sbocco che potrebbero incrementare tale valore fino a 2,1 m in scenari estremi.
Significato Scientifico e Implicazioni
La Figura 3 delinea una traiettoria di trasformazione irreversibile della criosfera artica con l’aumentare del riscaldamento globale. Nello scenario attuale prossimo a 1,5°C, si osservano segnali iniziali di declino del ghiaccio marino, espansione della fusione in Groenlandia e una parziale riduzione del permafrost, indicando una regione già vulnerabile. A 2,7°C, questi effetti si amplificano drasticamente, con la perdita completa del ghiaccio estivo, una fusione quadruplicata in Groenlandia e una riduzione del 50% del permafrost, accompagnati da emissioni significative di gas serra e un contributo marcato all’innalzamento del livello del mare. Questi cambiamenti, derivanti da modelli climatici sofisticati, evidenziano l’importanza cruciale di contenere il riscaldamento al di sotto di 1,5°C per mitigare gli impatti a cascata sulla criosfera, sugli ecosistemi artici e sul sistema climatico globale, con ripercussioni a lungo termine per la sicurezza costiera e il bilancio del carbonio planetario.

Analisi approfondita delle dinamiche di rischio nell’Artico attraverso i diagrammi a brace ardente: un’interpretazione scientifica della Figura 4 in funzione dei livelli di riscaldamento globale
La Figura 4 propone una rappresentazione schematica e sistematica delle variazioni del rischio associate a quattro categorie di impatti critici nell’Artico, utilizzando i cosiddetti “burning ember diagrams” (diagrammi a brace ardente), che correlano l’intensità degli effetti al graduale incremento del riscaldamento globale. Le categorie analizzate includono: (A) il funzionamento degli ecosistemi marini e le attività di pesca, (B) i grandi mammiferi marini, (C) i trasporti locali e (D) le infrastrutture. Questi diagrammi sono strutturati per valutare l’evoluzione del rischio lungo un continuum termico che si estende da 0°C a 4°C, con una particolare enfasi sul livello di 2,7°C, identificato come soglia critica alla luce delle proiezioni basate sulle attuali Contribuzioni Determinate a Livello Nazionale (NDCs). I dati sottostanti derivano da una combinazione di osservazioni empiriche e simulazioni modellistiche, con la fiducia nelle stime di rischio quantificata visivamente tramite un sistema di punti, che varia da tre (alta fiducia) a uno (bassa fiducia), con l’assenza di punti a indicare incertezze non valutabili o soglie di transizione non raggiunte.
Struttura e Metodologia della Rappresentazione
La figura è organizzata in quattro pannelli verticali, ciascuno dedicato a una specifica dimensione di impatto:
- Pannello A: Dinamiche degli ecosistemi marini e pesca
- Pannello B: Ecologia dei grandi mammiferi marini
- Pannello C: Mobilità e trasporti locali
- Pannello D: Stabilità delle infrastrutture
L’asse orizzontale rappresenta l’incremento della temperatura globale rispetto ai livelli preindustriali, mentre l’asse verticale codifica il livello di rischio attraverso una scala cromatica: bianco (rischio non rilevabile), giallo (rischio moderato), rosso (rischio elevato) e viola (rischio molto elevato). Una barra nera posizionata a 2,7°C funge da riferimento visivo per evidenziare gli impatti previsti sotto le attuali traiettorie di emissione. La robustezza delle valutazioni è indicata dal numero di punti accanto a ogni transizione di rischio, con tre punti che denotano alta fiducia scientifica, due punti media fiducia, un punto bassa fiducia e nessuna indicazione in caso di incertezza o assenza di soglia superata.
Interpretazione Dettagliata dei Pannelli
- Pannello A: Funzionamento degli ecosistemi marini e pesca
- A temperature prossime a 0°C, il rischio è classificato come non rilevabile (bianco), con ecosistemi marini e attività di pesca che operano in condizioni di stabilità, supportate da una copertura di ghiaccio marino e una produttività algale sostenuta.
- Con un riscaldamento moderato (giallo), si rilevano impatti iniziali, inclusa una diminuzione delle alghe marine e del ghiaccio, con conseguenti effetti sulla produttività marina e sulle catture ittiche, valutati con una fiducia medio-alta (due o tre punti).
- Al progredire del riscaldamento (rosso e viola), la perdita di ghiaccio marino e la modifica degli habitat acquatici compromettono gravemente gli ecosistemi e le risorse peschiere, raggiungendo un rischio molto elevato (viola) oltre i 2,7°C, con tre punti che confermano un’elevata affidabilità delle proiezioni.
- Pannello B: Grandi mammiferi marini
- A 0°C, il rischio è non rilevabile (bianco), con specie come gli orsi polari che prosperano su piattaforme di ghiaccio stabili, accedendo a fonti di cibo preferite come le foche.
- Con il passaggio a un rischio moderato (giallo), la riduzione del ghiaccio marino comporta periodi più lunghi trascorsi in acqua dagli orsi polari e una diminuzione dell’accesso al cibo, supportata da una fiducia medio-alta (due-tre punti).
- A temperature elevate (rosso e viola), la perdita di habitat e risorse alimentari diventa critica, portando a un rischio molto elevato (viola) oltre i 2,7°C, con tre punti che indicano un’elevata certezza scientifica.
- Pannello C: Trasporti locali
- A 0°C, il rischio è non rilevabile (bianco), con ghiaccio traversabile che sostiene i trasporti locali, come l’uso di motoslitte su superfici ghiacciate.
- Con un riscaldamento moderato (giallo), la stabilità del ghiaccio diminuisce, influenzando la sicurezza e la fattibilità delle rotte, con una fiducia media (due punti).
- A livelli più alti (rosso e viola), il ghiaccio diventa non attraversabile (“Nontraversable ice”) a causa del disgelo, con impatti significativi sulle comunità locali, raggiungendo un rischio molto elevato (viola) oltre i 2,7°C, con una fiducia limitata (un punto).
- Pannello D: Infrastrutture
- A 0°C, il rischio è non rilevabile (bianco), con permafrost stabile che fornisce un fondamento solido per le infrastrutture.
- Con un riscaldamento moderato (giallo), il disgelo del permafrost (“Permafrost ground is thawing”) rende il terreno instabile, con una fiducia alta (tre punti).
- A temperature elevate (rosso e viola), la subsidenza e l’erosione del permafrost (“Permafrost hillsides erosion”) causano danni strutturali significativi, con un rischio molto elevato (viola) oltre i 2,7°C, supportato da tre punti che indicano un’elevata confidenza.
Significato Scientifico e Implicazioni Climatiche
La Figura 4 impiega i diagrammi a brace ardente per offrire una visualizzazione progressiva dell’intensificazione del rischio associata all’aumento del riscaldamento globale, con il livello di 2,7°C che emerge come un punto di svolta critico. A questa temperatura, tutti e quattro gli impatti analizzati raggiungono o superano un rischio elevato, con transizioni al rischio molto elevato per gli ecosistemi marini, i grandi mammiferi marini e le infrastrutture, mentre i trasporti locali mostrano una fiducia più contenuta a causa delle incertezze nelle dinamiche locali del ghiaccio. La variazione nella fiducia scientifica, che va da alta (tre punti) per gli impatti ecologici e infrastrutturali a bassa (un punto) per i trasporti, riflette le complessità delle interazioni climatiche e la necessità di ulteriori ricerche. Questi risultati, radicati in modelli climatici e dati osservativi, evidenziano l’urgenza di adottare strategie di mitigazione per limitare il riscaldamento globale, al fine di preservare la biodiversità artica, sostenere le comunità indigene e proteggere le infrastrutture, mitigando così le ripercussioni globali sul clima e sulla sicurezza costiera.
diagrammi a brace ardente. Cosa sono?
I diagrammi a brace ardente (in inglese “burning ember diagrams”) sono uno strumento grafico utilizzato nella comunicazione scientifica, in particolare nel contesto dei rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e in studi climatici, per rappresentare visivamente l’evoluzione del rischio associato a specifici impatti del cambiamento climatico in relazione a diversi livelli di riscaldamento globale. Il termine “brace ardente” deriva dall’analogia con tizzoni che si accendono progressivamente, simbolizzando l’intensificazione dei rischi man mano che le temperature aumentano.
Caratteristiche principali
- Struttura Visiva:
- I diagrammi sono tipicamente organizzati con un’asse orizzontale che rappresenta l’incremento della temperatura globale (ad esempio, da 0°C a 4°C rispetto ai livelli preindustriali) e un’asse verticale che indica l’intensità del rischio.
- Il rischio è codificato tramite una scala cromatica:
- Bianco: Rischio non rilevabile o trascurabile.
- Giallo: Rischio moderato.
- Rosso: Rischio elevato.
- Viola: Rischio molto elevato.
- Le transizioni di colore riflettono il progredire del pericolo per un dato sistema o settore (ad esempio, ecosistemi, biodiversità, infrastrutture) con l’aumentare del riscaldamento.
- Funzione:
- Questi diagrammi sintetizzano complessi dati scientifici, derivati da modelli climatici, osservazioni e studi interdisciplinari, per comunicare in modo accessibile l’entità e la gravità degli impatti.
- Sono utilizzati per identificare soglie critiche di riscaldamento (ad esempio, 1,5°C o 2°C, come definiti dall’Accordo di Parigi) e per evidenziare i punti di non ritorno, oltre i quali gli effetti diventano irreversibili o estremamente difficili da mitigare.
- Elementi di Fiducia:
- Accanto a ogni transizione di rischio, viene indicato il livello di fiducia scientifica tramite un numero di punti (da uno a tre), dove:
- Tre punti: Alta fiducia, basata su evidenze robuste e consenso scientifico.
- Due punti: Media fiducia, con alcune incertezze.
- Un punto: Bassa fiducia, con dati limitati o incertezze significative.
- Nessun punto: Impossibilità di valutare la fiducia o assenza di una soglia superata.
- Questo sistema aiuta a contestualizzare l’affidabilità delle proiezioni.
- Accanto a ogni transizione di rischio, viene indicato il livello di fiducia scientifica tramite un numero di punti (da uno a tre), dove:
- Applicazioni:
- I diagrammi a brace ardente sono particolarmente utili per valutare settori vulnerabili come la criosfera (ghiaccio marino, ghiacciai), gli ecosistemi (fauna e flora), le infrastrutture (edifici su permafrost) e le attività umane (trasporti, agricoltura).
- Ad esempio, nella Figura 4 discussa in precedenza, i diagrammi mostrano come il rischio per gli ecosistemi marini, i mammiferi marini, i trasporti locali e le infrastrutture nell’Artico aumenti con il riscaldamento, raggiungendo livelli critici a 2,7°C.
Origine e Sviluppo
I diagrammi a brace ardente sono stati introdotti per la prima volta nel Terzo Rapporto di Valutazione dell’IPCC (2001) come mezzo per comunicare i rischi regionali del cambiamento climatico. Da allora, sono stati affinati per includere valutazioni quantitative e qualitative, integrando dati da modelli come quelli del Coupled Model Intercomparison Project (CMIP) e osservazioni sul campo. La loro forza risiede nella capacità di combinare complessità scientifica con una rappresentazione intuitiva, rendendoli uno strumento chiave per informare i decisori politici e il pubblico sulle implicazioni del riscaldamento globale.
Significato Scientifico
Questi diagrammi non solo illustrano l’intensificazione dei rischi, ma servono anche come monito sull’urgenza di agire per limitare il riscaldamento globale. Ad esempio, la transizione al viola (rischio molto elevato) in corrispondenza di livelli come 2,7°C sottolinea la necessità di mantenere il riscaldamento al di sotto di soglie più sicure (ad esempio, 1,5°C) per evitare impatti catastrofici. La variazione nella fiducia riflette le incertezze intrinseche ai modelli climatici e alle dinamiche locali, evidenziando aree di ricerca prioritarie.
In sintesi, i diagrammi a brace ardente sono uno strumento visivo e analitico potente, che traduce dati climatici complessi in un formato comprensibile, offrendo una base per la pianificazione della mitigazione e dell’adattamento al cambiamento climatico.
Rischi a cascata derivanti dalla trasformazione del sistema climatico artico a 2,7°C di riscaldamento globale: implicazioni per ecosistemi e società
Le evidenze scientifiche indicano che, con un incremento della temperatura media globale di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali, il sistema climatico artico subirà una trasformazione così profonda da risultare irriconoscibile rispetto alle sue condizioni attuali, generando conseguenze di vasta portata sia a livello locale che globale. Già al livello odierno di riscaldamento globale, gli impatti e i pericoli connessi al cambiamento climatico si manifestano in modo diffuso e pervasivo, con una tendenza all’aumento in frequenza e intensità proporzionale all’incremento delle temperature globali (56). Nell’Artico, tali cambiamenti risultano amplificati, con effetti diretti e chiaramente attribuibili che si propagano attraverso dinamiche di feedback, innescando rischi a cascata che coinvolgono molteplici settori della società e che si estendono oltre i confini locali, assumendo una dimensione internazionale.
A 2,7°C di riscaldamento globale, i rischi a cascata più critici derivano principalmente dalla perdita accelerata di ghiaccio marino, dallo scongelamento del permafrost e dalla significativa riduzione della massa glaciale della Groenlandia. Questi processi generano impatti rilevanti su diversi sistemi, tra cui: (i) gli ecosistemi marini e le attività di pesca, che subiscono alterazioni nelle dinamiche trofiche e nella produttività biologica; (ii) le popolazioni di grandi mammiferi marini e uccelli marini, le cui abitudini migratorie, riproduttive e di alimentazione vengono compromesse dalla riduzione degli habitat; (iii) i sistemi di trasporto locali e le rotte di navigazione, che affrontano sfide legate alla variabilità delle condizioni di ghiaccio e all’aumento dei pericoli ambientali; e (iv) le infrastrutture, sia costiere che interne, esposte a rischi crescenti di cedimenti strutturali e instabilità del suolo dovuti allo scongelamento del permafrost e all’erosione costiera.
Per analizzare e quantificare tali rischi, è stato adottato un approccio metodologico standardizzato e trasparente, sviluppato e perfezionato nel corso degli ultimi tre cicli di valutazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Tale approccio si avvale di diagrammi adattati di “braci ardenti” (burning ember diagrams), che rappresentano visivamente le soglie di rischio in funzione dell’aumento della temperatura media globale. Questi diagrammi evidenziano i sistemi artici che, a 2,7°C di riscaldamento, presentano livelli di rischio particolarmente elevati, definiti attraverso una combinazione di valutazioni esperte e analisi della letteratura scientifica più recente. I criteri utilizzati per identificare tali rischi includono la probabilità di impatti gravi e diffusi, la presenza di soglie di irreversibilità critiche e i limiti delle capacità di adattamento delle comunità e degli ecosistemi (57) (Fig. 4). Questi strumenti analitici sottolineano come, a questo livello di riscaldamento, i sistemi artici siano particolarmente vulnerabili, con implicazioni che si estendono ben oltre la regione, influenzando la stabilità ecologica, economica e sociale a scala globale.
Impatto del riscaldamento globale a 2,7°C sugli ecosistemi marini, la pesca e la fauna selvatica artica: conseguenze ecologiche e socioeconomiche
La progressiva riduzione del ghiaccio marino, indotta da un riscaldamento globale di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali, avrà effetti profondi e potenzialmente irreversibili sugli ecosistemi marini artici e sulla biodiversità che si è evoluta in condizioni di scarsa illuminazione e basse temperature oceaniche (Fig. 4A). Componenti fondamentali di questi ecosistemi, tra cui le alghe di ghiaccio, il fitoplancton, lo zooplancton e i coralli di acque fredde, mostrano livelli di tolleranza variabili alle pressioni ambientali associate al riscaldamento, come l’aumento delle temperature oceaniche, l’acidificazione, la deossigenazione e le variazioni nel flusso di carbonio organico particolato. Tali alterazioni avranno ripercussioni dirette sulle dinamiche trofiche degli ecosistemi marini, compromettendo la produttività biologica e la resilienza delle catene alimentari. Queste perturbazioni si tradurranno in implicazioni significative per la pesca, sia di sussistenza che commerciale su larga scala, entro il livello di riscaldamento di 2,7°C. Si prevede, infatti, che le popolazioni ittiche subiranno una contrazione geografica verso i poli e verso i confini geopolitici e nazionali, con conseguenti cambiamenti nella distribuzione delle risorse ittiche transfrontaliere (Fig. 4A). Questo spostamento aumenterà i conflitti nella gestione della pesca, complicherà le negoziazioni internazionali sulle quote di pesca e modificherà le distanze logistiche dai principali porti di distribuzione, con ripercussioni economiche per le filiere globali. Inoltre, la riduzione della produttività ittica, dei rendimenti e della biomassa rappresenterà una minaccia per la sicurezza alimentare e nutrizionale a livello regionale e globale, con effetti particolarmente gravi per le comunità indigene locali, già vulnerabili a carenze alimentari e nutrizionali, che dipendono fortemente dalle risorse marine per il loro sostentamento (58).
Parallelamente, il riscaldamento globale a 2,7°C avrà impatti significativi sulla fauna selvatica artica, in particolare sui grandi mammiferi marini e sugli uccelli marini, con conseguenze ecologiche e culturali di vasta portata. Una nuova analisi basata sui modelli climatici CMIP6 prevede che la popolazione di orsi polari della baia di Hudson meridionale sarà la prima a rischio di estinzione, con una probabilità di scomparsa compresa tra 1,5°C e 2°C di riscaldamento globale (59). Entro i 2,7°C, anche la popolazione della baia di Hudson occidentale potrebbe affrontare l’estinzione, mentre gli orsi polari nelle altre regioni artiche inizieranno a sperimentare periodi di digiuno prolungati, simili a quelli attualmente osservati nella baia di Hudson, a causa della ridotta disponibilità di ghiaccio marino, essenziale per la caccia e la sopravvivenza (Fig. 4B). Altri mammiferi marini artici, come le balene Beluga e le foche dipendenti dal ghiaccio, saranno esposti a rischi moderati a 2,7°C, con potenziali impatti irreversibili legati a cambiamenti nella loro distribuzione geografica, nella disponibilità di prede e nei tassi di mortalità dei cuccioli, aggravati dalla perdita di habitat idonei (60). Gli uccelli marini artici, a loro volta, si trovano in una posizione di particolare vulnerabilità a questo livello di riscaldamento (61, 62). La loro bassa plasticità riproduttiva, mediata dalla temperatura, e la crescente suscettibilità agli squilibri temporali tra i cicli riproduttivi e la disponibilità di prede rappresentano fattori critici che ne compromettono la capacità di adattamento. Questi squilibri, noti come mismatch trofici, possono ridurre significativamente il successo riproduttivo e la sopravvivenza delle popolazioni, contribuendo al declino della biodiversità artica e alla perdita di servizi ecosistemici essenziali. In sintesi, il riscaldamento globale a 2,7°C amplificherà le pressioni su questi sistemi, con effetti a cascata che si estenderanno oltre l’Artico, influenzando la stabilità ecologica globale e le dinamiche socioeconomiche delle comunità dipendenti da tali risorse.
Implicazioni del riscaldamento globale a 2,7°C sui trasporti locali e sulla navigazione marittima nell’Artico: rischi per la sicurezza, l’ambiente e la stabilità socioecologica
L’accelerazione del riscaldamento globale, con proiezioni che indicano un incremento della temperatura media globale di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali, avrà ripercussioni significative sui sistemi di trasporto locali e sulla navigazione marittima nell’Artico, con effetti che si manifesteranno attraverso un aumento dei rischi per la sicurezza umana, l’integrità ambientale e la stabilità socioecologica. Recenti studi evidenziano che, ben prima del raggiungimento dei 2,7°C, i trasporti locali su strada, sul ghiaccio marino e lungo i sentieri terrestri saranno esposti a crescenti pericoli (63) (Fig. 4C). In particolare, la variabilità del ghiaccio fluviale e marino, combinata con la ridotta affidabilità delle conoscenze tradizionali indigene relative alle condizioni ambientali, sta già contribuendo a un incremento del rischio di infortuni e mortalità lungo le strade di ghiaccio e i sentieri di ghiaccio marino. Questi cambiamenti, aggravati dalla perdita di stabilità del ghiaccio costiero, comporteranno un aumento delle esigenze e dei costi associati alle operazioni di ricerca e soccorso. Inoltre, le alterazioni nel ghiaccio marino costiero (landfast ice) limiteranno le opportunità di caccia di sussistenza sicura per le comunità indigene, con conseguenti ripercussioni negative sulla loro sicurezza alimentare, già compromessa da fattori climatici e socioeconomici preesistenti (58).
Parallelamente, il riscaldamento globale determinerà un prolungamento delle condizioni di assenza di ghiaccio, favorendo periodi più estesi di acque libere e un ampliamento delle opzioni di instradamento per attività marittime, quali il rifornimento domestico, la pesca, il turismo e il commercio internazionale (64-66). Tuttavia, tali opportunità saranno controbilanciate da un aumento dei rischi operativi. La maggiore mobilità del ghiaccio marino, associata a eventi meteorologici estremi sempre più frequenti e intensi, rappresenterà una sfida significativa per la sicurezza della navigazione. Tra le principali rotte artiche, la Rotta del Mare del Nord lungo la costa russa sarà la prima a beneficiare di periodi più lunghi di assenza di ghiaccio rispetto ad altre rotte, come la Rotta del Passaggio a Nord-Ovest (NWP) e la rotta transpola (TPR) attraverso l’Oceano Artico centrale. Tuttavia, le tensioni geopolitiche in corso con la Russia eserciteranno una pressione crescente sull’utilizzo della NWP e della TPR, aumentando la complessità delle dinamiche di gestione delle rotte marittime.
L’intensificazione dell’attività di navigazione, sebbene potenzialmente vantaggiosa dal punto di vista economico, avrà impatti ambientali significativi, con effetti a cascata sugli ecosistemi marini e sulle comunità locali. L’aumento del traffico marittimo contribuirà a un incremento del rumore subacqueo (67), che interferisce con i sistemi di comunicazione e orientamento delle specie marine, in particolare dei mammiferi marini. Inoltre, il rischio di collisioni tra navi e fauna selvatica (ship strikes) aumenterà (68), mentre l’inquinamento derivante dalle attività marittime, inclusi scarichi accidentali e emissioni, aggraverà ulteriormente la degradazione degli habitat marini (69). Questi impatti avranno ripercussioni dirette sulla riproduzione, sull’alimentazione e sulla sopravvivenza delle specie marine, compromettendo la stabilità delle reti trofiche. Gli effetti si propagheranno attraverso l’ecosistema, influenzando la distribuzione geografica delle specie, la stabilità ecologica e la vitalità delle popolazioni, con conseguenze che metteranno ulteriormente a rischio la sicurezza alimentare delle comunità indigene, già vulnerabili a causa della perdita di risorse tradizionali (70, 71). In sintesi, il riscaldamento globale a 2,7°C amplificherà le sfide legate ai trasporti locali e alla navigazione marittima nell’Artico, evidenziando la necessità di strategie integrate per mitigare i rischi ambientali e sociali e per garantire la sostenibilità delle attività umane in questa regione critica.
Impatto del riscaldamento globale a 2,7°C sulle infrastrutture artiche: degradazione del permafrost, erosione costiera e implicazioni per la sostenibilità delle comunità
Lo scongelamento del permafrost superficiale, riconosciuto come un pericolo climatico di crescente rilevanza, esercita un’influenza diretta e significativa sugli ecosistemi artici, sulle popolazioni locali e sulle infrastrutture, con effetti che si manifestano attraverso dinamiche ambientali e socioeconomiche complesse (6) (Fig. 4D). Il processo di scongelamento dello strato superficiale del permafrost, indotto dall’aumento delle temperature globali, provoca la fusione del ghiaccio presente nel terreno, determinando fenomeni di subsidenza. Questi si verificano quando i materiali terrestri collassano nello spazio precedentemente occupato dal ghiaccio, alterando la stabilità del suolo. Inoltre, la perdita di ghiaccio nel terreno può innescare episodi di scongelamento improvviso, noti come thawing events, che generano rapidi cambiamenti geomorfologici nel terreno permafrost, superando di gran lunga le modifiche che ci si aspetterebbe da un graduale incremento delle temperature (26). Questi eventi, caratterizzati da una natura spesso imprevedibile e catastrofica, rappresentano una minaccia significativa per le regioni artiche, dove gran parte dello sviluppo industriale ed economico, inclusi edifici, strade, oleodotti e siti di stoccaggio di rifiuti industriali, è stato costruito su suoli permafrost. Una stima recente indica che, entro la fine del secolo, la maggior parte dei siti contaminati presenti nell’Artico sarà interessata dalla degradazione del permafrost (72). Questo processo comporterà il rilascio di contaminanti, come metalli pesanti e composti organici persistenti, nella rete trofica, con conseguenti rischi per la biodiversità e la salute umana. Sebbene i cambiamenti nel permafrost si sviluppino su scale temporali di anni o decenni, le risposte dei paesaggi su scala regionale sono spesso percepite come eventi catastrofici, sia dai residenti locali che dalla comunità globale, evidenziando la portata delle implicazioni di questo fenomeno. Lo scongelamento del permafrost rappresenta, quindi, una minaccia diretta per gli ecosistemi artici, la salute umana e le infrastrutture, contribuendo a danni strutturali diffusi e innescando processi di erosione costiera che compromettono lo sviluppo sostenibile delle comunità artiche (73).
Parallelamente, l’innalzamento del livello del mare (SLR, Sea Level Rise), amplificato dal riscaldamento globale, aggrava ulteriormente i rischi per le infrastrutture e le comunità costiere artiche. Questo fenomeno aumenta la probabilità di erosione costiera, inondazioni e perdita di ecosistemi costieri, oltre a favorire l’intrusione di acqua salata nelle risorse di acqua dolce, compromettendo la disponibilità di acqua potabile (74). L’effetto combinato dell’innalzamento del livello del mare e della perdita di ghiaccio marino genera ampie distese di acque libere (fetch), che facilitano la formazione di onde più grandi e potenti. Questo incremento dell’energia delle onde amplifica i rischi di erosione costiera, con implicazioni a cascata per le infrastrutture costruite lungo le coste, inclusi edifici, porti e sistemi di trasporto, e per le comunità locali che dipendono da queste risorse per il loro sostentamento (75). Le proiezioni sull’innalzamento del livello del mare sono caratterizzate da un’ampia gamma di incertezze, legate sia alla variabilità dei modelli climatici che alla complessità dei processi di fusione delle calotte glaciali. Di conseguenza, le comunità costiere artiche si trovano costrette a sviluppare piani di resilienza e adattamento per affrontare un futuro incerto, bilanciando la necessità di proteggere le infrastrutture esistenti con la sfida di garantire la sostenibilità a lungo termine. In sintesi, il riscaldamento globale a 2,7°C amplificherà le pressioni sulle infrastrutture artiche, evidenziando la necessità di approcci integrati per mitigare i rischi ambientali, proteggere la salute umana e promuovere la resilienza delle comunità in un contesto di cambiamento climatico accelerato.
Effetti combinati e interazioni complesse tra cambiamento climatico, geopolitica e dinamiche socioeconomiche nell’Artico: implicazioni per la gestione del rischio e la sostenibilità
Gli impatti diretti e a cascata, sia osservati che proiettati, derivanti dal riscaldamento globale, sono soggetti a un’amplificazione significativa attraverso l’interazione con una serie di fattori compounding, ovvero elementi aggravanti che includono dinamiche geopolitiche, tensioni internazionali (come conflitti armati), fluttuazioni dei prezzi delle materie prime, politiche commerciali globali, variazioni nella domanda e/o offerta di minerali preziosi e altre risorse naturali, interruzioni delle catene di approvvigionamento globali, pandemie e una vasta gamma di altre influenze socioeconomiche e politiche (57, 76). Questi fattori, operando su scale temporali variabili, possono manifestarsi in modo rapido e improvviso, come nel caso di crisi geopolitiche, o evolvere gradualmente, influenzando i livelli di rischio climatico e la capacità delle società di mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici. La complessità e l’interconnessione di tali fattori richiedono un’analisi approfondita e integrata in qualsiasi valutazione del rischio climatico, poiché la loro interazione può amplificare vulnerabilità preesistenti e generare nuove sfide per la gestione ambientale e la sostenibilità.
Nell’Artico, recenti sviluppi evidenziano chiaramente l’impatto di questi fattori compounding. Ad esempio, la perdita di collaborazione scientifica internazionale, innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, ha portato a una significativa diminuzione della capacità della rete di monitoraggio degli ecosistemi artici (77). La rete completa di monitoraggio del flusso di carbonio, che include siti situati nella Federazione Russa, fornisce il 50% di informazioni aggiuntive rispetto a una rete priva di tali siti, rendendo la perdita di accesso a questi dati particolarmente critica per la comprensione delle dinamiche climatiche regionali. Sebbene questa perdita possa essere parzialmente compensata attraverso la costruzione di nuove infrastrutture di monitoraggio in regioni alternative, come il Nord America, tale soluzione comporta costi economici e logistici significativi e non è in grado di recuperare integralmente i dati e le conoscenze perdute, soprattutto in un contesto di ridotta cooperazione scientifica internazionale (78).
Parallelamente, le tensioni geopolitiche legate al conflitto ucraino hanno avuto ripercussioni significative sulle dinamiche strategiche e ambientali nell’Artico. In risposta all’invasione russa, la NATO ha intensificato la sua prontezza militare nella regione, un’azione che potrebbe accelerare la militarizzazione dell’Artico. Questo aumento della presenza umana, associato a infrastrutture militari e attività correlate, avrà inevitabili implicazioni per la gestione dell’ambiente naturale, potenzialmente compromettendo la conservazione degli ecosistemi e aumentando i rischi ambientali. Inoltre, il conflitto ha contribuito a un aumento dei prezzi globali dell’energia, intensificando la pressione per lo sfruttamento delle risorse naturali artiche. Un esempio emblematico è rappresentato dall’approvazione, nel 2023, da parte dell’amministrazione Biden, di un grande progetto di trivellazione petrolifera nella National Petroleum Reserve-Alaska, una decisione che riflette la crescente domanda di risorse energetiche in un contesto di instabilità geopolitica. Sebbene nuove concessioni per trivellazioni offshore siano state temporaneamente sospese, questo moratorium rimane fragile e potrebbe essere revocato in qualsiasi momento, evidenziando la vulnerabilità delle politiche ambientali alle pressioni economiche e geopolitiche.
In sintesi, l’interazione tra cambiamento climatico e fattori compounding, come tensioni geopolitiche, crisi economiche e dinamiche socioeconomiche globali, amplifica i rischi nell’Artico, compromettendo la capacità di monitorare e gestire gli impatti ambientali e creando nuove sfide per la sostenibilità. Questi sviluppi sottolineano la necessità di approcci integrati e resilienti, capaci di affrontare le interconnessioni tra clima, geopolitica e società, per garantire la protezione degli ecosistemi artici e il benessere delle comunità locali in un contesto globale sempre più complesso e incerto.
Un futuro incerto: implicazioni del riscaldamento globale sull’Artico e necessità di azioni globali integrate per la sostenibilità e la resilienza
Le attività antropogeniche, in particolare la combustione di combustibili fossili, hanno determinato un incremento senza precedenti delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera terrestre, raggiungendo livelli che rappresentano i più alti nella storia dell’umanità. Questo aumento evidenzia l’influenza dominante dell’umanità sul sistema climatico globale, con effetti che si manifestano su tutte le sue componenti, dalle profondità oceaniche alla troposfera, e che si estendono dalle regioni tropicali alle zone polari, alterando i processi biogeochimici e le dinamiche climatiche su scala planetaria.
Per analizzare l’entità di tali impatti nell’Artico, questa revisione si è concentrata sulle condizioni previste a due specifici livelli di riscaldamento globale rispetto all’era preindustriale: +1,5°C e +2,7°C. È importante sottolineare, tuttavia, che il livello di +2,7°C non rappresenta uno scenario peggiore, ma piuttosto il livello di riscaldamento che si raggiungerebbe se tutte le nazioni rispettassero integralmente gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra delineati nei Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDCs) nell’ambito dell’Accordo di Parigi. Qualora tali promesse non fossero mantenute, il riscaldamento globale potrebbe facilmente superare i +2,7°C, con conseguenze ancora più gravi per gli ecosistemi e le società. Al contrario, con un’accelerazione degli sforzi globali, rimane possibile limitare il riscaldamento a un livello significativamente inferiore a +2,7°C, riducendo così l’entità degli impatti climatici.
Per prevenire un ulteriore degrado del sistema climatico e soddisfare le esigenze delle generazioni presenti e future, è necessaria un’azione globale audace, collaborativa e immediata. Tale azione richiede investimenti significativi in settori chiave, tra cui il consumo e la produzione sostenibili, la gestione responsabile delle risorse naturali, l’eradicazione della povertà, la transizione verso fonti di energia rinnovabile e la promozione di una sostenibilità ambientale e sociale integrata. La riduzione delle emissioni di carbonio di origine antropogenica, attraverso strategie di mitigazione climatica, è essenziale per attenuare i cambiamenti nell’Artico e mitigare gli impatti globali associati. Parallelamente, vi è un’urgente necessità di sviluppare e implementare strategie di adattamento locali e regionali per affrontare gli impatti inevitabili e i rischi a cascata derivanti dalla perdita di ghiaccio marino, dalla degradazione del permafrost e dall’innalzamento del livello del mare. Questi sforzi devono necessariamente includere le voci e le prospettive dei popoli indigeni che abitano l’Artico, i quali hanno una profonda comprensione dell’interconnessione tra le loro culture, i loro mezzi di sussistenza e l’ambiente naturale (79).
I popoli indigeni dell’Artico, infatti, stanno vivendo una trasformazione senza precedenti del loro ambiente e stanno sempre più sostenendo la necessità di cambiamenti politici che non solo affrontino le minacce ambientali immediate, ma garantiscano anche il rispetto dei loro diritti, della loro sovranità e delle loro conoscenze tradizionali come elementi centrali di tutte le soluzioni climatiche (79, 80). Data la relativa sotto-sviluppo dell’Artico rispetto ad altre regioni dell’Emisfero Nord, esiste un’opportunità unica per implementare le migliori pratiche e le lezioni apprese da altre regioni, promuovendo uno sviluppo congiunto con le comunità indigene per favorire un’economia verde autodeterminata, sostenibile e innovativa (81, 82). Questo processo richiede una transizione accelerata nell’uso e nella produzione di energia, il rafforzamento delle infrastrutture marittime e un allineamento strategico con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, integrando approcci che bilancino la protezione ambientale con lo sviluppo economico.
Sebbene l’umanità abbia dimostrato una notevole capacità di adattamento a una vasta gamma di condizioni climatiche nel corso della sua storia, il riscaldamento globale continuo, associato a eventi di calore estremo, fenomeni meteorologici estremi e l’innalzamento del livello del mare, potrebbe rendere alcune regioni del pianeta, inclusi parti dell’Artico, inabitabili. In questa regione, il livello di riscaldamento globale determinerà il destino di interi paesaggi, che, pur apparendo remoti e ostili ai visitatori esterni, sono tra i più vulnerabili del pianeta. Questi paesaggi sono anche la casa di popoli indigeni che custodiscono conoscenze e saggezze tradizionali di valore inestimabile, essenziali per la comprensione e la gestione degli ecosistemi artici. La perdita di questi paesaggi e delle culture che li abitano rappresenterebbe non solo una tragedia ecologica, ma anche una perdita irreversibile per l’umanità nel suo complesso. Il futuro dell’Artico, e con esso la stabilità globale, dipende dalle scelte che compiamo oggi, sottolineando la necessità di un impegno collettivo per ridurre le emissioni, proteggere gli ecosistemi e promuovere una resilienza inclusiva e sostenibile.