https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0277379113002989
4. Archivi marini dell’Oceano Artico centrale
4.1. Forme del terreno
Le prime scoperte di fondali impattati dal ghiaccio nelle profondità maggiori di 800 metri sotto il livello attuale del mare dell’Oceano Artico sono state realizzate da Vogt et al. (1994), i quali hanno mappato sia lineazioni che singole impronte di aratura sul Plateau di Yermak. Ciò è stato seguito dalla scoperta di estese azioni di impatto del ghiaccio sulla dorsale centrale di Lomonosov fino a una profondità d’acqua attuale di 1000 metri (Jakobsson, 1999; Polyak et al., 2001) (Figure 1 e 10). In seguito, i rilievi bathimetrici adiacenti ai margini continentali dell’Oceano Artico sono stati parzialmente mappati durante diverse spedizioni con rompighiaccio. Poche aree mappate a profondità inferiori a 900-1000 metri sono prive di tracce di aratura da parte di iceberg di grande pescaggio o masse di ghiaccio più compatte. È necessaria una mappatura più dettagliata di questa parte della cresta per interpretare ulteriormente le forme del terreno di origine glaciale nel contesto della storia glaciale dell’Oceano Artico.
4.2. Stratigrafia e Cronologia
Le velocità di sedimentazione moderne e oloceniche nell’Artico diminuiscono notevolmente con l’allontanamento dai margini continentali e dagli ingressi oceanici. Ciò riflette ampiamente i processi di trasporto da shelf a bacino, gli apporti dei maggiori fiumi e, comunemente, tassi di sedimentazione molto più elevati nella zona di ghiaccio marginale. Nell’Artico centrale, i due principali meccanismi di trasporto per i sedimenti includono il rilascio da ghiaccio marino in fusione e il trasporto laterale di materiale fine tramite correnti oceaniche. Di conseguenza, mentre lungo i pendii continentali si registrano tassi di sedimentazione che vanno dalle decine alle centinaia di cm/ka, la datazione al radiocarbonio dei sedimenti dell’Artico centrale rivela tassi che raramente superano i pochi cm/ka (Backman et al., 2004). I tassi di sedimentazione più bassi si verificano in aree con le condizioni di ghiaccio marino più persistenti, inclusa la parte centrale del Bacino Amerasiano (Levitan e Stein, 2008; Polyak et al., 2009; Stein et al., 2010). Questo limita lo studio delle variazioni climatiche su scala millenaria, con poche eccezioni in cui si è verificato un focus dei sedimenti (Hanslik et al., 2010). Durante il MIS 2 (14-29 ka; Lisiecki e Raymo, 2005), i tassi di sedimentazione nell’Artico centrale sono stati significativamente ridotti rispetto all’Olocene. Questa diminuzione è stata interpretata prevalentemente come indicativa di condizioni di ghiaccio più severe e di una ridotta bioproduttività (Darby et al., 1997; Nørgaard-Pedersen et al., 1998; Poore et al., 1999). Una delle osservazioni più notevoli dall’Artico Occidentale è l’apparente cessazione della sedimentazione sul Dorsale di Mendeleev durante l’ultimo massimo glaciale, dove si verifica un hiatus tra 13,7 e 19,7 anni 14C BP in 8 carote di sedimenti datate con radiocarbonio (Fig. 11). Questa interruzione nella sedimentazione è stata precedentemente collegata allo sviluppo di ghiaccio marino perenne coeso e spesso nella regione durante le condizioni glaciali complete, o alla formazione di ghiaccio marino paleocristico e/o di una piattaforma di ghiaccio (Polyak et al., 2009).
Nel settore eurasiatico dell’Artico centrale, la discontinuità nella sedimentazione durante l’ultimo massimo glaciale (LGM) è meno evidente (Fig. 11). Ad esempio, nelle regioni circumpolari della Dorsale di Lomonosov, la datazione ad alta risoluzione con 14C di Neogloboquadrina pachyderma da alcuni campioni ha rivelato una continuazione, sebbene a tassi ridotti, della sedimentazione durante l’LGM, mentre in altri resoconti si evidenzia una pausa correlativa all’LGM (Hanslik et al., 2010) (Fig. 11). Sull’Elevazione di Morris Jessup, sulla Dorsale di Lomonosov, a nord della Groenlandia e attraverso il bacino centrale eurasiatico, la sedimentazione sembra essere proseguita durante l’LGM, seppur a un ritmo diminuito (Fig. 11). Questi schemi si contrappongono ai tassi di sedimentazione nello Stretto di Fram, sul Plateau di Yermak e nei siti prossimi ai margini continentali glaciazionati, come il nord-est della Groenlandia e la piattaforma di Barents-Kara, dove si sono mantenuti tassi di sedimentazione relativamente alti (Nørgaard-Pedersen et al., 2003).
Complessivamente, nel Bacino Eurasiatico, gradienti netti verso tassi di sedimentazione più elevati, flussi di foraminiferi planctonici e valori di δ18O delle acque superficiali sono interpretati come prova di una copertura di ghiaccio marino LGM meno estesa e della presenza di masse d’acqua dell’Atlantico (Nørgaard-Pedersen et al., 2003). Una produttività biologica relativamente alta è stata segnalata anche per i sedimenti dell’LGM lungo il margine settentrionale del Mar di Barents, dove l’upwelling di acqua atlantica a causa dei venti catabatici provenienti dal ghiacciaio di Svalbard/Barents potrebbe aver creato una polinia costiera persistente lungo il margine di Barents fino almeno alla posizione della Fossa di Sant’Anna (Knies et al., 1999) (per la localizzazione vedi Fig. 1). Ricostruzioni più recenti del ghiaccio marino LGM, basate su biomarcatori derivati dal fitoplancton, indicano che il ghiaccio marino perenne si estendeva a sud del 81°N nello Stretto di Fram e sopra il Plateau di Yermak tra i 29-27,5 ka e i 23,5-17 ka (Müller et al., 2009), e anche attraverso la parte meridionale della Dorsale di Lomonosov vicino alla piattaforma di Laptev tra i 30 e circa 15 ka (Stein e Fahl, 2013).
la Figura 10 rappresenta un profilo acustico sub-bottom, una registrazione geofisica del sottosuolo ottenuta mediante sonar di penetrazione, che mostra la struttura interna della cresta sommitale poco profonda della Dorsale di Lomonosov. Questo tipo di indagine è fondamentale per la geologia marina perché permette di visualizzare le strutture sottostanti il fondale oceanico, che non sarebbero altrimenti accessibili.
- Asse verticale – Profondità (m): L’asse verticale misura la profondità sotto il livello del mare in metri. La scala di profondità mostra che il rilievo della dorsale raggiunge una profondità minima di circa 1000 metri sotto il livello del mare.
- Cresta della Dorsale: Il punto più alto della dorsale, al centro del profilo, è indicato come una zona di intensa erosione glaciale. Questa erosione è indicata dalle frecce bianche che puntano verso superfici inclinate e arrotondate, le quali sono state levigate dall’azione abrasiva del ghiaccio che scorre a grandi profondità (deep drafting ice).
- Sedimento Ridepositato: Al di sotto della cresta della dorsale, le zone scure indicano aree dove il sedimento, una volta rimosso dall’azione erosiva del ghiaccio, è stato trasportato e successivamente redepositato. Questi strati di sedimento ridepositato possono offrire informazioni sulla dinamica del ghiaccio e sui processi deposizionali che hanno seguito l’erosione.
- Localizzazione Geografica: La dorsale si estende tra il Bacino Amerasiano e il Bacino Eurasiatico, come indicato dai nomi sui rispettivi lati del profilo. Questa dorsale è un elemento geografico significativo nell’Oceano Artico e funge da divisione tra i due bacini.
- Scala Orizzontale e Tempo di Transito in Acqua (TWT): Il lato inferiore del profilo mostra due scale: una è la scala orizzontale che misura la distanza lungo la cresta della dorsale in chilometri (0 a 10 km), e l’altra rappresenta il tempo di transito del segnale acustico (200 msec TWT), che è il tempo impiegato dall’impulso acustico per viaggiare dall’emettitore al fondo marino e ritorno al ricevitore. Questo parametro è utilizzato per calcolare la distanza verticale attraversata dal segnale acustico, essenziale per ricostruire un’immagine precisa del sottosuolo.
In somma, il profilo sub-bottom fornisce una rappresentazione dettagliata della geomorfologia e dei processi sedimentari della cresta della Dorsale di Lomonosov, evidenziando l’importante influenza dell’azione erosiva e deposizionale delle masse di ghiaccio nell’ambito della storia geologica dell’Artico.
Lo sviluppo di condizioni meno severe del ghiaccio marino nello Stretto di Fram ha iniziato circa 17 mila anni calibrati prima del presente (cal ka BP), una transizione che viene attribuita a un incremento dell’afflusso di acque atlantiche verso l’Artico, e al ritiro successivo o coincidente della calotta glaciale di Svalbard/Barents (Müller et al., 2009). Tuttavia, la presenza di ghiaccio marino perenne sopra il Plateau meridionale di Yermak tra 23,5 e 17 cal ka BP, corrisponde anche al picco di abbondanze di foraminiferi bentonici associati con l’afflusso di acque atlantiche (Wollenburg et al., 2004), suggerendo un afflusso sottomarino di acque atlantiche verso l’Artico glaciale; un argomento che verrà trattato ulteriormente più avanti nella Sezione 5.
I bassi tassi di sedimentazione che predominano in gran parte dell’Artico centrale durante l’Ultimo Massimo Glaciale (LGM) non caratterizzano l’intero periodo glaciale. Sebbene la risoluzione temporale della maggior parte dei carotaggi dell’Artico centrale sia troppo bassa o insufficientemente dettagliata per documentare cambiamenti su scala millenaria, le evidenze di cambiamenti ambientali bruschi durante l’ultimo ciclo glaciale (MIS 4e1) sono state rilevate da registri recentemente pubblicati basati sull’abbondanza e sulla composizione delle specie di ostracodi (Poirier et al., 2012), da ricostruzioni della temperatura delle acque di fondo (Cronin et al., 2012), e da studi preliminari sui biomarcatori di ghiaccio marino provenienti dal margine meridionale della dorsale di Lomonosov/Laptev (Stein e Fahl, 2013). Analogamente, ingressi improvvisi di detriti rocciosi trasportati da iceberg nella parte occidentale dello Stretto di Fram durante il MIS 3 e 2, sono stati collegati attraverso la provenienza dei granuli di ossido di ferro agli eventi di sganciamento di iceberg dalla calotta glaciale Laurentide (Darby et al., 2002). Eventi simili sono registrati in carote con risoluzione temporale inferiore dall’Artico occidentale e centrale (Darby e Zimmerman, 2008). Per affinare la cronologia di questi eventi è necessario effettuare trivellazioni dedicate in contesti marginali dell’Artico dove, fino ad ora, alti tassi di sedimentazione hanno impedito l’acquisizione di registri sedimentari che documentano l’intero ciclo glaciale ultimo.
Al di là del limite di datazione del radiocarbonio (¹⁴C), stabilire modelli d’età per i sedimenti dell’Artico centrale diventa complesso (Backman et al., 2004; Alexanderson et al., 2014). Tuttavia, attraverso gran parte dell’Artico centrale, i pattern ciclici nella composizione dei sedimenti segnalano modi distinti di sedimentazione glaciali/stadiali e interglaciali/interstadiali (O’Regan et al., 2008; Sellén et al., 2010). I sedimenti interglaciali/interstadiali sono principalmente fanghi fini bioturbati (ovvero dominati da limo e argilla), con quantità moderate a basse di materiale grossolano trasportato dal ghiaccio marino (<10% in peso). Generalmente includono foraminiferi bentonici e planctonici, ostracodi e nannofossili calcarei, che indicano una produttività moderata in condizioni di ghiaccio marino stagionalmente variabile. Questi sedimenti sono frequentemente di colore marrone scuro, dovuto a un arricchimento di idrossidi di manganese, provenienti da sedimenti fluviali e di piattaforma consegnati all’Artico (März et al., 2011; Löwemark et al., 2012). In contrasto, i sedimenti glaciali e stadiali sono spesso beige o grigi, sostanzialmente privi di microfossili e segni di bioturbazione, e contengono proporzioni maggiori di materiale grossolano (ad esempio, Jakobsson et al., 2000; O’Regan et al., 2008; Polyak et al., 2009).
Anche nell’Artico centrale, si possono riscontrare quantità elevate di materiale grossolano in spessi diamicton (da decimetri a oltre 1 metro di spessore), come quelli trovati sulla Dorsale di Lomonosov (Svindland e Vorren, 2002) durante il MIS 6, 5b, tra il 5/4 e il 4/3 (Jakobsson et al., 2001; Spielhagen et al., 2004). Questi diamicton sono collegati, per tempistica e composizione minerale, all’estensione della calotta glaciale Barents-Kara fino al margine della piattaforma continentale, dove si presume che fossero rilasciate flotte di grandi iceberg tabulari durante gli ultimi due cicli glaciali (Jakobsson et al., 2001; Kristoffersen et al., 2004; Spielhagen et al., 2004).Non esistono indicazioni che facies simili siano state depositate sulla Dorsale di Lomonosov prima del MIS 6, nemmeno analizzando la sezione più estesa di 20-30 metri che va dal Pliocene al Quaternario, recuperata durante la Arctic Coring Expedition (ACEX) (O’Regan et al., 2010). Il diamicton più antico identificato sulla Dorsale centrale di Lomonosov si presenta durante il MIS 6 e corrisponde al primo periodo datato di erosione glaciale sulla cresta della dorsale, probabilmente causata dallo scavo di masse di ghiaccio profonde e coese (Jakobsson, 1999; Jakobsson et al., 2010b; O’Regan et al., 2010). Basandosi sugli studi attuali, non si riconoscono chiaramente diamicton corrispondenti tardi del Quaternario nei sedimenti del Bacino Amerasiano. Sebbene i sedimenti glaciali continuino ad essere dominati da depositi grossolani beige e da sedimenti grigi laminati, nel Bacino Amerasiano si osserva un incremento complessivo del contenuto di frazione grossolana nella parte mediana del Pleistocene. Queste unità a grana grossa sono spesso arricchite in dolomiti, suggerendo una provenienza dall’Arcipelago Artico Canadese (Phillips e Grantz, 2001; Darby et al., 2006; Polyak et al., 2009; Stein et al., 2010). Per gran parte del Quaternario, è difficile stabilire correlazioni dirette tra questi eventi e l’accrescimento e il ritiro della Calotta Glaciale Laurentide a causa del controllo d’età impreciso nei record sedimentari marini, dei tassi di sedimentazione generalmente bassi in questi contesti distali e, a differenza delle calotte glaciali eurasiatiche, per la mancanza di età calibrate riguardanti l’avanzamento della Calotta Glaciale Laurentide fino al margine della piattaforma continentale. Inoltre, rimane considerevole incertezza riguardo alla tempistica, natura ed estensione delle glaciazioni quaternarie nei mari di Bering e della Siberia Orientale.
Simulazione della Circolazione Oceanica durante le Fasi Glaciali e Interglaciali
Durante le condizioni di massima glaciazione, con un livello del mare inferiore di oltre 100 metri (Lambeck et al., 2002), l’Oceano Artico, compresi i mari di Groenlandia, Islanda e Norvegia, si presentava significativamente diverso dalla sua configurazione odierna. La chiusura del Mare di Barents, dello Stretto di Bering e dei canali attraverso l’Arcipelago Canadese, unitamente all’esposizione subaerea dell’area poco profonda dei mari di Chukchi, Est Siberiano e Laptev, rappresenta la più drastica riorganizzazione fisiografica. Durante i periodi di massima glaciazione, lo Stretto di Fram era l’unico passaggio oceanico verso l’Oceano Artico (Fig. 1 e 3). Inoltre, l’apporto di acqua dolce all’Oceano Artico glaciale era diminuito durante le condizioni glaciali, a causa della cessazione dell’entrata di acque del Pacifico a bassa salinità attraverso lo Stretto di Bering e una riduzione complessiva del ciclo idrologico (Lohmann e Lorenz, 2000). Condizioni diverse dei venti superficiali nel mondo glaciale (Shin et al., 2003; Stärz et al., 2012) potrebbero anche avere causato una circolazione modificata nell’Oceano Artico (Stigebrandt, 1985) e si ritiene che la formazione di acque profonde nell’Atlantico Nord fosse ridotta (Broecker, 1997; Shin et al., 2003). Data l’entità di questi cambiamenti pronunciati, è probabile che la circolazione dell’Oceano Artico avesse una modalità glaciale, distintamente diversa dall’attuale. Basandosi su considerazioni teoriche e dati paleoceanografici, sono stati proposti numerosi schemi di circolazione. Questi spaziano da un Oceano Artico sostanzialmente privo di ghiaccio (Donn e Ewing, 1966; Olausson e Jonasson, 1969) a uno completamente ricoperto da ghiaccio marino spesso (Weyl, 1968; Bradley e England, 2008).
Sulla base della ridotta entrata di acqua dolce, Olausson e Jonasson (1969) ipotizzarono che lo strato superficiale a bassa salinità fosse assente nell’Oceano Artico durante il periodo glaciale. Essi concepirono un Oceano Artico debolmente stratificato, mantenuto privo di ghiaccio tramite il trasporto di calore associato alla circolazione delle acque Atlantiche. Una stima approssimativa, utilizzando una perdita di calore media annua di 100 W m⁻² da un’area di acqua aperta di approssimativamente 7×10¹² m², suggerisce che un trasporto di calore oceanico di circa 0.7 PW attraverso la dorsale Groenlandia-Islanda sia necessario per mantenere l’Artico glaciale libero da ghiaccio marino. Questo valore è circa tre volte superiore al flusso di calore oceanico verso nord dei giorni nostri (Hansen e Østerhus, 2000), indicando che lo scenario completamente privo di ghiaccio proposto da Olausson e Jonasson (1969) è meno plausibile. In effetti, esistono dati paleoceanografici che indicano che l’acqua superficiale a bassa salinità, che attualmente si trova confinata nell’Oceano Artico e lungo la costa est della Groenlandia, si estendeva frequentemente verso sudest sopra i mari di Groenlandia e Norvegia (Dokken e Jansen, 1999; Bauch et al., 2001). Lo strato superficiale a bassa salinità stabilizzava la colonna d’acqua nei mari nordici, consentendo un’espansione della copertura di ghiaccio marino. Di conseguenza, le fonti di acqua profonda a nord della dorsale Groenlandia-Islanda passarono da una convezione aperta predominante nei mari nordici centrali alla formazione di acqua densa legata alla salamoia nelle aree di piattaforma costiera vicine (Dokken e Jansen, 1999; Bauch et al., 2001; Haley et al., 2008). Tuttavia, le condizioni oceanografiche nell’Atlantico Nord settentrionale e nell’Oceano Artico sembrano aver variato significativamente entro un periodo glaciale, mostrando cambiamenti pronunciati tra interstadiali più caldi e stadiali più freddi (Stigebrandt, 1985; Ganopolski et al., 1998; Dokken e Jansen, 1999).
Durante i periodi glaciali, si osserva che le masse d’acqua più calde dell’Atlantico si siano spinte verso nord, superando la dorsale di Groenlandia-Islanda e raggiungendo i mari di Norvegia-Groenlandia e l’Oceano Artico (ad esempio, Hebbeln et al., 1994; Bauch et al., 2001; Cronin et al., 2012). Il riscaldamento sottomarino era particolarmente evidente durante il MIS 3, periodo in cui il bacino centrale dell’Artico, tra i 1000 e i 2500 metri di profondità, era occupato da masse d’acqua che potevano essere da 2 a 4 °C più calde rispetto ai valori attuali (Cronin et al., 2012). Parallelamente, sembra che le temperature tra la superficie e i 500 metri di profondità fossero prossime al punto di congelamento, un intervallo di profondità oggi occupato dalle Acque Atlantiche calde. Nonostante la risoluzione verticale dei dati esistenti sia limitata, ciò sembra indicare che l’aloclino freddo si sia approfondito, risultando in uno spostamento verso il basso del livello intermedio glaciale di Acqua Atlantica Artica calda. Tale spostamento verso il basso dell’Acqua Atlantica Artica calda è anche considerato presupposto per lo sviluppo di estesi complessi di ghiaccio marino sui banchi continentali dell’Oceano Artico durante il MIS 6 e presumibilmente anche durante l’Ultimo Massimo Glaciale (LGM) (Fig. 12).
In che misura la modellazione climatica e della circolazione oceanica offre informazioni supplementari e vincoli sulla circolazione dell’Oceano Artico glaciale? La maggior parte degli sforzi basati su modelli climatici si è focalizzata sull’LGM e i confronti tra modelli e dati hanno principalmente interessato l’Oceano Atlantico e l’Oceano Australe (Otto-Bliesner et al., 2007). Inoltre, anche i modelli di circolazione oceanica regionale ad alta risoluzione incontrano difficoltà nel riprodurre la circolazione attuale delle acque Artiche e Atlantiche (Holloway et al., 2007).
Recentemente, Stärz et al. (2012) hanno implementato un modello di circolazione dell’Oceano Artico e del Nord Atlantico a risoluzione regionale (circa 30 × 30 km) per studiare le condizioni durante l’Ultimo Massimo Glaciale (LGM). I risultati da una simulazione globale del modello climatico di Shin et al. (2003) forniscono le condizioni al contorno meridionale del modello così come le condizioni iniziali. Con il loro forzamento standard per il LGM, l’acqua Atlantica che entra nell’Oceano Artico attraverso lo Stretto di Fram presentava temperature prossime al punto di congelamento. Inoltre, l’aloclino principale si superficializza fino a circa 100 m nell’esperimento LGM, rispetto ai 200 m nell’esperimento di controllo attuale. A prima vista, questo risultato sembra in contraddizione con le evidenze per la presenza di un aloclino glaciale profondo, proposto da Jakobsson et al. (2010b) e Cronin et al. (2012) basandosi su modelli concettuali e dati paleoceanografici (Fig. 12). Tuttavia, la simulazione LGM di Stärz et al. (2012) dimostra che, nello Stretto di Fram, lo strato di uscita dall’Artico si estende fino a circa 1500 m di profondità e che l’influsso Atlantico ha il suo centro spostato verso il fondale. Questo è in ampio accordo con la stratificazione proposta per l’Oceano Artico glaciale da Jakobsson et al. (2010b) e Cronin et al. (2012), sebbene la temperatura dell’Acqua Atlantica Artica nella simulazione LGM di Stärz et al. (2012) sembri essere leggermente troppo fredda per coincidere con i proxy di temperatura Mg/Ca ottenuti dagli ostracodi dell’Oceano Artico.
Esistono inoltre concetti teorici che possono chiarire la circolazione glaciale dell’Oceano Artico. Una circolazione di tipo più estuariale nell’Oceano Artico glaciale, caratterizzata da un esteso strato superficiale a bassa salinità, potrebbe svilupparsi se il flusso di calore verso nord attraverso la dorsale Groenlandia-Islanda fosse sufficientemente ridotto (Stigebrandt, 1985; Spall, 2012). Se una modalità di circolazione estuariale avesse prevalso, si prevede che il generale decremento dell’apporto di acqua dolce all’Oceano Artico avrebbe causato un’estensione più profonda dello strato superficiale a bassa salinità; ovvero, un approfondimento dell’aloclino freddo (Nilsson e Walin, 2010; Jakobsson et al., 2010b).
La chiusura dello Stretto di Bering e del Mare di Barents avrebbe influenzato i modelli di circolazione oceanica, sia su scala regionale che globale (Hu et al., 2010, 2012). Stigebrandt (1984) ha ipotizzato che la differenza di salinità tra il Nord Atlantico e il Nord Pacifico sia regolata dal flusso attraverso lo Stretto di Bering. Quest’idea ha stimolato ulteriori riflessioni su come una chiusura del passaggio dello Stretto di Bering potrebbe affettare la circolazione termoalina dell’Atlantico (De Boer e Nof, 2004). La modellazione della circolazione indica che una chiusura del Mare di Barents potrebbe diminuire il flusso di acqua Atlantica attraverso l’Artico (Aksenov et al., 2011). Un altro fattore determinante è rappresentato dai venti sull’Oceano Artico, che generano un flusso di corrente importante per il trasporto dell’acqua Atlantica attraverso l’Oceano Artico (Nøst e Isachsen, 2003). Nella condizione glaciale, sia la forza del vento sia la geometria dei contorni di profondità chiusi subiscono modifiche. Questo cambierebbe indubbiamente la circolazione dell’acqua Atlantica nell’Oceano Artico.
In conclusione, le nostre conoscenze sulla circolazione dell’Oceano Artico glaciale sono state significativamente migliorate dalle analisi basate sui dati nell’ultimo decennio. Tuttavia, i dati presentano alcune sfide teoriche, compresa la possibilità di un aloclino freddo molto profondo e le interazioni tra oceano e calotte glaciali nell’Oceano Artico glaciale. Si prevede, però, che il quadro che emerge dalle recenti ricostruzioni, unitamente alla modellazione teorica e numerica, contribuirà a migliorare ulteriormente la nostra comprensione della circolazione dell’Oceano Artico glaciale.
la Figura 11 è una rappresentazione grafica dei tassi di sedimentazione basati su datazioni al radiocarbonio (14C) e delle età calibrate per i sedimenti raccolti da vari punti dell’Oceano Artico. Ecco una spiegazione dettagliata e scientificamente precisa di ogni componente della figura:
Tassi di Sedimentazione
- Grafici Lineari (Sotto gli Istogrammi): Ogni grafico mostra il tasso di sedimentazione (sul lato verticale, in cm/ka, ovvero centimetri per migliaio di anni) in funzione dell’età calibrata dei sedimenti (sul lato orizzontale, in ka BP, ovvero migliaia di anni prima del presente).
- Curva di Sedimentazione: Le linee nei grafici rappresentano la curva di sedimentazione, che traccia come il tasso di sedimentazione varia nel tempo per ciascun nucleo di sedimento.
- Punti di Datazione: I punti lungo le curve indicano le età calibrate dei campioni di sedimento, con le barre verticali che rappresentano l’intervallo di incertezza a 2 deviazioni standard.
Istogrammi
- Bande Orizzontali (Sopra ogni Grafico): Gli istogrammi mostrano il numero di età calibrate che sono state ottenute dai campioni di sedimento a diverse profondità cronologiche. Le barre orizzontali rappresentano la frequenza delle età calibrate in ciascun intervallo di tempo.
- Barre Tratteggiate: Nell’istogramma del pannello A, le barre tratteggiate indicano il periodo di hiatus, ovvero un’interruzione nella sedimentazione, che è stata dedotta aumentando il DR (Delta R, o ritardo regionale) a 1000 anni per campioni più antichi di 10 ka.
Interpretazione dei Dati
- Bassi Tassi di Sedimentazione Centrale: I pannelli A, B e C mostrano chiaramente che i tassi di sedimentazione nel centro dell’Artico sono generalmente bassi, particolarmente quando confrontati con quelli dei siti marginali (D, E), indicando una deposizione più lenta o meno costante di sedimenti in quelle aree centrali.
- Hiatus in Sedimentazione: Il pannello A evidenzia un hiatus diffuso nel Bacino Amerasiano, suggerendo che ci sia stata una marcata riduzione o assenza di deposizione di sedimenti durante un certo periodo geologico.
- MIS 2: Durante lo Stadio Isotopico Marino 2 (un periodo freddo dell’ultima era glaciale), si nota una riduzione dei tassi di sedimentazione attraverso l’Oceano Artico centrale.
- Implicazioni Geologiche e Climatiche: Questi dati di sedimentazione sono cruciali per comprendere gli antichi ambienti marini, i modelli di circolazione oceanica, e le risposte del sistema climatico a forzanti esterni come i cambiamenti nel livello del mare e i flussi d’acqua attraverso lo Stretto di Bering.
Contesto Metodologico
- CALIB 6.0 e Marine09: Le età sono state calibrate usando il software CALIB 6.0 e la curva di correzione del serbatoio Marine09, che sono strumenti standard per la calibrazione delle date al radiocarbonio, considerando le variazioni nella concentrazione atmosferica del 14C nel tempo e le differenze nella riserva di carbonio tra l’atmosfera e gli oceani.
- Correzione Regionale: È stata applicata una correzione regionale (DR) standard di 300 anni a tutti i campioni per tenere conto delle variazioni locali nelle riserve di carbonio che potrebbero influenzare le date al radiocarbonio.
Questi dati sono fondamentali per ricostruire la storia sedimentaria e climatica dell’Oceano Artico e per capire come questa regione ha risposto a cambiamenti climatici e ambientali nel passato.(Programma di correzione del serbatoio CALIB 6.0.1. Disponibile online su: http://calib.qub.ac.uk/calib/).
La Figura 12 fornisce un modello concettuale che descrive le differenze nelle dinamiche oceanografiche dell’Oceano Artico durante i periodi glaciali (A) e interglaciali (B). Ecco una spiegazione dettagliata per ciascun aspetto del modello:
Periodo Glaciale (A):
Durante i periodi glaciali:
- Ghiaccio Marino: Vi è una copertura estesa di ghiaccio marino che può estendersi fino ai margini continentali e oltre.
- Haloclino Freddo: Sotto il ghiaccio marino, si forma uno strato di acqua fredda e relativamente dolce noto come haloclino, che agisce da isolante e previene lo scambio di calore tra l’acqua più calda sottostante e il ghiaccio marino.
- Acqua Atlantica: L’acqua più calda e salata dell’Atlantico scorre al di sotto dell’haloclino, mantenendo una stratificazione stabile che impedisce il riscaldamento del ghiaccio marino.
- Topografia del Fondale Marino: La topografia del fondale marino è raffigurata come una sezione trasversale da sinistra a destra, mostrando come la profondità del fondale aumenta da GS-R a AR.
Periodo Interglaciale (B):
Durante i periodi interglaciali:
- Ghiaccio Marino: Il ghiaccio marino è presente ma potrebbe essere meno esteso che durante i periodi glaciali, consentendo un maggiore scambio di calore e influenzando la stratificazione dell’acqua.
- Haloclino Freddo: L’haloclino esiste ancora ma può essere meno definito o può variare di più a causa dell’aumento del calore e della salinità delle acque superiori.
- Acqua Atlantica: L’acqua atlantica continua a fluire verso l’Artico, ma a causa della riduzione del ghiaccio marino e del cambiamento dell’haloclino, può interagire maggiormente con le acque superiori, potenzialmente influenzando la fusione del ghiaccio marino.
- Topografia del Fondale Marino: La topografia del fondale marino rimane invariata, ma il diagramma suggerisce che il flusso e la distribuzione dell’acqua atlantica e il suo contenuto di calore possono essere diversi, influenzando così la stratificazione e la circolazione dell’acqua nell’Artico.
Interpretazione Generale:
Questi modelli concettuali sono utilizzati per visualizzare come l’Oceano Artico possa reagire ai cambiamenti climatici su scala glacial-interglaciale. Durante i periodi glaciali, la copertura di ghiaccio estesa e lo strato di haloclino ben definito limitano la miscelazione verticale e mantengono l’acqua atlantica calda a grandi profondità. Durante i periodi interglaciali, con minore copertura di ghiaccio e possibile indebolimento dell’haloclino, ci può essere più scambio di calore verso la superficie, influenzando il clima dell’Artico e potenzialmente contribuendo al riscaldamento globale e alla fusione del ghiaccio marino.
La comprensione di questi processi è cruciale per i modelli climatici e gli studi paleoceanografici, poiché fornisce informazioni sulla circolazione degli oceani in passato e sui meccanismi che possono aver influenzato il clima terrestre su larga scala.
6. Simulazione dei mantelli di ghiaccio e dei complessi delle banchine glaciali
Prima degli anni ’70, esistevano soltanto pochi modelli numerici per la simulazione dei mantelli di ghiaccio e dei complessi delle banchine glaciali. La stabilità dei complessi delle banchine glaciali veniva principalmente discussa con riferimento al Mantello di Ghiaccio dell’Antartide Occidentale, basandosi sul limitato insieme di dati derivanti dalle osservazioni sul campo disponibili e/o sulle analisi matematiche delle prime descrizioni teoriche delle dinamiche delle banchine glaciali e dei mantelli di ghiaccio (Weertman, 1974; Hughes, 1975; Thomas, 1979). Sia Mercer (1970) che Hughes et al. (1977) applicarono idee e concetti sviluppati per le configurazioni antartiche all’Artico, proponendo l’esistenza di estese banchine glaciali nell’Oceano Artico. Tuttavia, in quel periodo, le simulazioni numeriche di ipotizzate banchine glaciali nell’Oceano Artico erano impossibili. I primi modelli numerici di banchine glaciali, ad esempio quelli di Thomas e Bentley (1978), non gestivano correttamente la dinamica del ghiaccio nella zona di transizione tra una banchina glaciale e un mantello di ghiaccio. Attualmente, la dinamica delle banchine glaciali viene integrata nei modelli avanzati dei mantelli di ghiaccio, sebbene rappresenti ancora una notevole sfida. Per poter spiegare come ciò venga realizzato, si fornisce qui una breve sintesi dei modelli numerici dei mantelli di ghiaccio.
Basandosi sui concetti glaciologici numerici all’avanguardia di Weertman (1974), Hughes et al. (1977) ricostruirono un imponente “Mantello di Ghiaccio Artico del tardo-Würm”. Tuttavia, fino a circa un decennio fa, i modelli numerici del ghiaccio si limitavano a rappresentare solo il comportamento delle parti interne, che si muovono lentamente (decine di metri all’anno) e sono omogenee, dei mantelli di ghiaccio terrestri. Questi modelli, noti come “Approssimazione del Ghiaccio Superficiale di ordine zero (SIA)”, considerano i mantelli di ghiaccio essenzialmente piatti per semplificare le equazioni che governano la loro dinamica (Hutter, 1983; Kirchner et al., 2011).
A causa dell’ipotesi di superficialità, i modelli SIA si dimostrano efficaci nell’interno di un mantello di ghiaccio, ma risultano inadeguati in regioni caratterizzate da dinamiche del ghiaccio altamente variabili, quali correnti di ghiaccio rapide e ghiacciai di deflusso (con velocità fino a 1000 m/anno), e quando si avvicinano alla zona di linea di messa a terra. Inoltre, il ghiaccio galleggiante non ancorato, comprese le piattaforme glaciali e le lingue dei ghiacciai, non può essere trattato con i modelli SIA.
Nonostante i modelli SIA presentino limitazioni, hanno contribuito con importanti intuizioni sulla storia glaciale dei mantelli di ghiaccio nell’Artico circumpolare (per esempio, Siegert et al., 1999; Siegert e Dowdeswell, 2004; Tarasov e Peltier, 2004; Stokes e Tarasov, 2010). Il confronto tra i mantelli di ghiaccio simulati utilizzando i modelli SIA e le forme del terreno, come le MSGL, GZW e le creste moreniche, risulta difficile perché i modelli SIA non riescono a rappresentare accuratamente queste strutture, tipicamente prodotte ai margini marini del ghiaccio dove piattaforme glaciali e lingue dei ghiacciai fluttuanti collegano il sistema glaciale terrestre con quello oceanico (Joughin e Alley, 2011).
Durante l’ultimo decennio, la comunità di modellazione dei mantelli di ghiaccio ha sviluppato modelli dei mantelli di ghiaccio migliorati, i cosiddetti modelli “di ordine superiore” e modelli “Full Stokes”. Questi modelli tengono conto del flusso lento che domina il movimento del ghiaccio ancorato all’interno, del flusso rapido nei fiumi di ghiaccio, del flusso di ghiaccio attraverso la linea di messa a terra, e del flusso delle piattaforme glaciali (Pattyn, 2003; Schoof, 2007; Pollard e DeConto, 2012; Seddik et al., 2012; Larour et al., 2012). I modelli Full Stokes rappresentano l’approccio più accurato dal punto di vista fisico, ma sono anche i più onerosi in termini di risorse computazionali richieste. Inoltre, i risultati delle simulazioni ottenuti con modelli SIA, di ordine superiore e Full Stokes sono stati confrontati rispetto a problemi di modello semplificati (Pattyn et al., 2008, 2012; Calov et al., 2010).
La simulazione della dinamica del ghiaccio dei ghiacciai marini dell’Oceano Artico del Quaternario richiede l’uso di modelli Full Stokes. Tuttavia, le dimensioni spaziali e la longevità di questi fenomeni non consentono ancora l’applicazione di tali modelli, dato che i modelli Full Stokes sono ancora limitati a scale temporali centenarie e a domini spaziali ristretti.
Come alternativa, i modelli Full Stokes e i modelli SIA potrebbero essere accoppiati in modo adattivo, ossia commutando alla modalità SIA laddove consentito e alla modalità Full Stokes laddove richiesto. Questo tipo di accoppiamento rappresenta una sfida tecnica complessa e necessita di una nuova indagine sulle relazioni di scala comunemente impiegate (Ahlkrona et al., 2013). Tra i modelli di ordine superiore esistenti, soltanto due sono stati finora utilizzati per simulare le condizioni glaciali del passato nell’area circumpolare artica (DeConto et al., 2008; Alvarez-Solas e Ramstein, 2011; Koenig et al., 2011). Tuttavia, anche in queste applicazioni, la dinamica combinata di mantelli di ghiaccio e piattaforme glaciali è stata o disabilitata o non poteva essere risolta con l’allestimento sperimentale previsto, ciò significa che il componente del modello del mantello di ghiaccio di ordine superiore operava esclusivamente in modalità SIA.
Fino a quando i modelli dei mantelli di ghiaccio di ordine superiore e i modelli Full Stokes non saranno adattati per essere applicati più agevolmente, le simulazioni dei complessi paleo-glaciali dell’Oceano Artico, inclusi i flussi di ghiaccio e le piattaforme glaciali, dovranno fare affidamento sui modelli SIA o utilizzare strategie di modellazione radicalmente diverse. Kirchner et al. (2013) hanno proposto un modello statistico specificamente per esplorare le dimensioni spaziali probabili del complesso della piattaforma glaciale dell’Oceano Artico MIS 6 ipotizzato da Jakobsson et al. (2010b). Il modello statistico di Kirchner et al. (2013) è stato specificatamente concepito per valutare se l’esteso complesso della piattaforma glaciale MIS 6 potesse rappresentare una fonte plausibile di iceberg a grande pescaggio, come è stato ipotizzato (per esempio, Dowdeswell et al., 2010b; Jakobsson et al., 2010b; O’Regan et al., 2010).Il concetto statistico è fondato sull’istituzione di relazioni tra le contemporanee piattaforme glaciali antartiche e il loro ambiente fisico locale, presupponendo che le piattaforme glaciali dell’Oceano Artico durante il MIS 6 si siano dimensionate in modo analogo. I dati sulle aree delle piattaforme glaciali antartiche attuali, sulla lunghezza del fronte di distacco e sullo spessore del ghiaccio lungo il fronte di distacco sono stati integrati con metodi statistici per i valori estremi al fine di derivare una descrizione probabilistica del massimo pescaggio (profondità sotto il livello del mare) lungo i fronti di distacco di varie configurazioni ipotizzate di piattaforme glaciali MIS 6 nel settore Amerasiano dell’Oceano Artico. L’ipotesi che le localizzazioni di ancoraggio del ghiaccio mappate a profondità acquatiche eccezionalmente elevate debbano essere state generate durante eventi estremi, in cui venivano prodotti iceberg con pescaggi insolitamente elevati, si riflette nella scelta specifica della metodologia statistica: i principi della statistica dei valori estremi offrono un quadro statistico solido, concepito per affrontare eventi estremi piuttosto che eventi ordinari. I risultati ottenuti si sono rivelati robusti e hanno identificato fonti probabili per iceberg di dimensioni sufficienti a scandagliare il fondale marino a profondità di circa 1000 m sotto il livello attuale del mare. Inoltre, i risultati del modello statistico indicano anche l’ampiezza dell’estensione possibile del complesso delle piattaforme glaciali dell’Oceano Artico Amerasiano, di cui una configurazione è stata proposta in Jakobsson et al. (2010b).
7. Discussione e Conclusioni
I progressi realizzati da quando Mercer (1970) formulò l’ipotesi di un antico inlandsis nell’Oceano Artico sono stati numerosi, tuttavia permangono lacune informative riguardanti aree chiave indispensabili per ricostruire una storia glaciale olistica dell’Oceano Artico. Questa sintesi circumpolare riguardante le morfologie glaciali, le stratigrafie e le cronologie illustra lo stato attuale delle conoscenze e pone in evidenza una serie di questioni ancora irrisolte emergenti da tale sintesi. È importante sottolineare che molte delle domande qui sollevate risultano oggi più agevolmente indagabili rispetto a qualche decennio fa, grazie allo sviluppo di nuove tecniche di datazione e al notevole perfezionamento delle capacità di mappatura ad alta risoluzione dei fondali marini. Questo suggerisce che alcune aree dell’Oceano Artico, precedentemente esaminate, potrebbero beneficiare di nuove indagini. Si evidenzia altresì la necessità di una maggiore integrazione tra diversi insiemi di dati, quali quelli marini, terrestri e i risultati derivanti dalla modellazione delle calotte glaciali.
La questione dell’esistenza di vaste piattaforme di ghiaccio nel settore centrale dell’Oceano Artico e dei meccanismi attraverso i quali queste erano alimentate dai margini circumpolari è ancora lungi dall’essere chiarita. Sebbene gli eventi di ancoraggio del ghiaccio che hanno raggiunto profondità superiori ai 1000 m rispetto all’attuale livello del mare siano attualmente datati al MIS 6 (es. Jakobsson et al., 2010b), è probabile che altre piattaforme di ghiaccio, estese ma più sottili, si siano formate nel corso del Quaternario (Polyak et al., 2007). Infatti, considerando le prove di una dinamica di crescita e collasso delle piattaforme di ghiaccio artiche nel corso dell’Olocene (Antoniades et al., 2011), e prendendo l’Antartide come analogo per l’Artico glaciale, appare plausibile che piattaforme di ghiaccio si siano sviluppate in varie parti dell’Oceano Artico.Tuttavia, queste caratteristiche enigmatiche dell’Artico glaciale, inclusa la loro estensione e le connessioni con i mantelli di ghiaccio continentali, sono difficili da definire. L’identificazione delle facies sedimentarie subglaciali nell’Artico potrebbe rappresentare un metodo fondamentale per restringere la loro distribuzione passata, ma pochi carotaggi sedimentari lunghi 10-20 metri prelevati dalle zone marginali dell’Artico risalgono all’Ultimo Massimo Glaciale (LGM), periodo in cui tali sedimenti subglaciali sarebbero presumibilmente conservati in maniera più evidente. Se l’assenza di sedimentazione relativa all’LGM in numerosi carotaggi dell’Oceano Artico, provenienti dall’Artico Occidentale, possa essere attribuita all’esistenza di vaste piattaforme di ghiaccio rimane una questione non risolta. Analogamente, le ipotesi secondo cui queste piattaforme di ghiaccio potrebbero aver coperto la dorsale centrale di Lomonosov non sono definitive (Jakobsson, 1999; Polyak et al., 2001). Quest’area merita di essere nuovamente esplorata e mappata integralmente con tecniche di batimetria a fascio multiplo ad alta risoluzione. Inoltre, il versante meridionale della Dorsale di Lomonosov, al largo della Groenlandia, costituisce un altro punto di grande interesse per la storia glaciale dell’Oceano Artico centrale, come dimostrato dalle linee sismiche ottenute in questa regione, che evidenziano una notevole erosione glaciale (Kristoffersen e Mikkelsen, 2006), e dalle forme del paesaggio terrestre che indicano il transito di vaste piattaforme di ghiaccio durante l’LGM e, potenzialmente, durante precedenti glaciazioni.
Il Mare di Barents rappresenta probabilmente l’area meglio documentata dell’Alto Artico in termini di storia glaciale, nonostante persistano significative lacune nella copertura dei dati. Di conseguenza, le questioni aperte riguardano aspetti più dettagliati. Una di queste questioni concerne la dinamica del ghiacciaio Svalbard-Barents, dall’Ultimo Massimo Glaciale (LGM) fino alla sua fase di ritiro (es. Ingólfsson e Landvik, 2013). I domi di ghiaccio hanno subito ristrutturazioni maggiori durante la fase di ritiro rapido, che verosimilmente era strettamente correlata ai cambiamenti oceanografici e del livello del mare? Ciò potrebbe fornire una spiegazione per le contraddizioni ancora presenti tra i dati marini e terrestri della regione orientale di Svalbard. Le recenti scoperte di morfologie terrestri che indicano un ritiro post-LGM estremamente dinamico del ghiacciaio Svalbard-Barents, con il ghiaccio che procedeva per balzi, sono di particolare rilievo alla luce delle attuali preoccupazioni sulle instabilità dei mantelli di ghiaccio marini, in particolare nell’area della Baia di Pine Island nell’Antartide Occidentale (es. Katz e Worster, 2010).
La dinamica dei flussi glaciali nel Mare di Beaufort è fondamentale per decifrare la storia glaciale dell’Oceano Artico occidentale. Gli avanzamenti del LIS (Last Ice Sheet) nord-occidentale sembrano essere collegati a caratteristiche glaciogene identificate sul fondale marino lungo la piattaforma dell’Alaska e il Borderland di Chukchi (Cresta di Northwind e Altopiano di Chukchi). Studi recenti hanno dimostrato che solo due avanzamenti glaciali hanno raggiunto la Trincea di Mackenzie nel tardo Quaternario, uno dei quali durante l’LGM (Murton et al., 2010; Batchelor et al., 2013).
Questo solleva interrogativi su possibili avanzamenti glaciali di grande entità verso lo scaffale marino del Mare di Beaufort canadese non ancora mappati e, se ciò fosse avvenuto, se hanno contribuito allo sviluppo di piattaforme di ghiaccio nell’Oceano Artico occidentale. Il registro stratigrafico del Chukchi supporta questa ipotesi, in quanto un evento di erosione glaciale è associato al ghiaccio di origine Laurentide nel MIS 4 (Polyak et al., 2007). Alternativamente, si pone la questione se la formazione di estese piattaforme di ghiaccio fosse confinata al MIS 6, come sembrerebbero suggerire i dati dell’Oceano Artico centrale, con eventi erosivi nell’area del Mare di Chukchi collegati ad attività glaciali indipendenti in Beringia? Un’area chiave che potrebbe meritare ulteriori indagini per approfondire i legami tra il LIS e il Chukchi è il Beaufort Alaskano, dove Engels et al. (2008) hanno indicato la presenza di lineazioni glaciali tramite immagini acquisite da sonar a scansione laterale. Nuove mappature batimetriche ad alta risoluzione e campionamenti di sedimenti in questa regione potrebbero fornire dati cruciali. Infine, la vasta evidenza di eventi IRD nei sedimenti dell’Artico centrale, estendendosi fino allo Stretto di Fram, indica la presenza di molteplici e significativi eventi di avanzamento rapido dei ghiacciai provenienti dai flussi di ghiaccio dell’Arco Canadese, dai quali si sono originati almeno sette flussi di ghiaccio dall’IIS e dal LIS nord-occidentale durante il MIS 2 (Blasco et al., 1990; Stokes et al., 2005; England et al., 2006; Stokes et al., 2009; MacLean et al., 2010; Fritz et al., 2012). Le glaciazioni precedenti nell’Arco Canadese richiederanno record offshore di maggiore risoluzione e capacità di penetrazione, vicini alle fonti di ghiaccio.
La recente cartografia del Borderland di Chukchi e del margine più orientale del Mare della Siberia Orientale pone diverse questioni importanti riguardo alla storia glaciale in questa parte dell’Oceano Artico (Dove et al., 2014). Le ipotesi precedenti di un ambiente di tundra-steppa fredda privo di ghiaccio che si estendeva dalla penisola di Taymyr più orientale verso ovest fino ad est dell’Isola di Wrangel durante l’LGM necessitano di essere riviste. Nuovi dati suggeriscono che centri di calotte glaciali esistevano effettivamente sul Chukchi e/o sulla piattaforma esterna della Siberia Orientale (Dove et al., 2014); anche sulle parti settentrionali delle Isole della Siberia Orientale sembrano essere conservate evidenze di impatti glaciali (Basilyan et al., 2010). Saranno necessari ulteriori ricerche sul campo in queste aree prima di poter formulare un quadro olistico dei componenti glaciali del Quaternario in questa regione.